Recensione del libro di Ernst Lohoff: Der Dritte Weg in den Bürgerkrieg (La terza via verso la guerra civile), Horlemann Verlag, Bad Honnef, 1996
Anselm Jappe
Essendo la via albanese verso il capitalismo finita nel caos, si ridesterà forse per un attimo l’interesse per le cause della recente guerra in Jugoslavia – a meno di non volersi accontentare della spiegazione corrente secondo cui si sarebbe trattato semplicemente di un irrazionale odio etnico tra popoli che da secoli si sbranano a vicenda. Ernst Lohoff, di cui Invarianti ha pubblicato in questo numero e in quello precedente un lavoro, ha applicato al caso jugoslavo, con risultati notevoli, gli strumenti critici elaborati da Krisis . Nel suo saggio in Krisis 14, poi allargato fino a diventare un libro pubblicato nel 1996 (Der Dritte Weg in den Bürgerkrieg – La terza via verso la guerra civile),egli esamina non la lontana preistoria dei popoli jugoslavi, ma l’epoca titoista e soprattutto un periodo quasi mai considerato dai commentatori: il decennio tra la morte di Tito e l’inizio della guerra. In un perfetto equilibrio tra analisi teorica e dettagliata descrizione storica, questo libro si legge come un “giallo” quando segue le tappe del precipitarsi inesorabile del paese balcanico verso la catastrofe finale.
La Jugoslavia è un caso paradigmatico, perché testimonia del doppio fallimento dello Stato come del mercato. Dopo i fragili successi economici negli anni del boom economico mondiale, il mercato jugoslavo è fallito necessariamente – e non a causa di errori che si sarebbero potuti evitare – con la fine del boom fordista verso il 1970. La successiva mutazione dello Stato da “capitalista complessivo” (Marx) in “criminale complessivo” dice la verità su ciò che è lo Stato oggi. Fattori particolari hanno fatto sì che la Jugoslavia sia stata l'”antesignano” europeo di questo “collasso della modernizzazione” (Kurz), ma niente esclude che sia il preludio a simili sviluppi in altri paesi. Non c’è niente di “balcanico”, di “arcaico” o di “selvaggio” nel dramma jugoslavo, ma si tratta di un fenomeno modernissimo; i tanto citati conflitti etnici assumono il loro aspetto mortifero solo quando l’economia è allo sbando e si accentuano perciò le divergenze tra regioni ricche e povere. Come la Jugoslavia, pure la Germania e l’Italia erano costituite, nel momento della loro unità, da popoli profondamente diversi, anche per quanto riguarda il loro livello di sviluppo, e se la Jugoslavia avesse conosciuto un’evoluzione economica paragonabile, le divergenze etniche si sarebbero ridotte al rango di folklore anche in quel paese. La guerra jugoslava non è dunque un’inspiegabile eccezione nell’epoca della vittoria di democrazia e mercato, ma indica l’impossibilità di creare un capitalismo funzionante nei paesi periferici. In Jugoslavia non abbiamo assistito a un’esplosione di violenza primordiale, ma a una versione più brutale della stessa logica che regna nei paesi occidentali. La pulizia etnica è figlia della modernità. Per comprendere il conflitto jugoslavo è molto più utile sapere che l’economia jugoslava era la più disastrata d’Europa e che essa negli anni ottanta (in cui quasi nessuno in Europa guardava alla Jugoslavia) presentava tutti i difetti di un’economia del Terzo mondo con l’iperinflazione, un gigantesco debito estero, l’arresto quasi completo della produzione industriale e di ogni economia “normale”, sostituita da produzione di sussistenza e da traffici illegali. I conflitti etnici non erano la causa del fallimento della “via jugoslava”, ma la loro conseguenza. Scrive Lohoff: “In Jugoslavia non è fallita solo la variante socialista della modernizzazione, ma la modernizzazione in generale, e nella lotta nazionalistica non si tratta di qualcosa di atavico, ma di qualcosa di molto attuale, cioè del saccheggio di una rovina della modernizzazione.”
Il Regno jugoslavo fondato nel 1919, dominato dai serbi, non riusciva né a mettere in moto uno sviluppo economico né a omogeneizzare le diverse regioni. L’unica forza nel paese che non era solo la rappresentanza di un gruppo etnico, ma che si era fatta portatrice dell’idea “panjugoslava” e della modernizzazione del paese erano i comunisti, che anche grazie a ciò trionfarono nella seconda guerra mondiale sui loro avversari. Dopo la guerra, il regime di Tito avviò una decisa modernizzazione e tentò di unificare il paese colmando il divario economico tra il Nord ricco (Slovenia, Crozia) e il Sud povero (Serbia, Bosnia, Macedonia). Ma in realtà il partito comunista rimase l’unica istanza veramente panjugoslava. Spesso si afferma che la Jugoslavia oggi sarebbe un paese fiorente se invece di subire il regime comunista avesse praticato fin dall’inizio l’economia di mercato. In verità, solo il dirigismo statale era in grado di organizzare la marcia a tappe forzate verso la modernizzazione che dovevano tentare tutti i paesi entrati in ritardo nell’economia mondiale, e di avviare almeno gli inizi di uno sviluppo esteso all’intero paese; altrimenti questo si sarebbe frantumato ancora prima.
Inoltre, la Jugoslavia ha conosciuto, a partire dagli anni ’50, delle dosi sempre più massicce di mercato. Inizialmente non mancavano i successi. Ma la Jugoslavia, come tanti altri paesi, non ha mai avuto una vera chance per inserirsi durevolmente nella modernità, non potendo resistere alla concorrenza sui mercati internazionali. La “via jugoslava verso il socialismo” è stata un eterno oscillare tra mercato e Stato, che alla fine ha combinato gli svantaggi di entrambi. Ma poco nel disastro jugoslava può essere attribuito a “errori” o a semplice cattiva volontà. Tutta la storia della via jugoslava è stata una storia di aporie e di circoli viziosi: per esempio, le tendenze protezionistiche aiutavano l’economia nazionale a sopravvivere, ma la mantenevano a livelli bassi e incapace di concorrere sui mercati esteri. Le imprese erano (formalmente) autogestite, ma in acerrima concorrenza tra di loro nel tentativo di attirare a sé più risorse possibili. Lo stesso valeva per le repubbliche federali, che riuscivano a ottenere sempre maggiori autonomie, il che alimentò a sua volta la loro competizione. L’economia obbediva alle regole di un mercato concorrenziale, i cui soggetti erano però piuttosto i collettivi che i singoli. Ma al contempo le esigenze della pianificazione statale imponevano dei comportamenti anti-economici, e si produceva senza alcun riguardo per i normali criteri di efficienza economica. Il graduale allargamento dell’autogestione era essenzialmente un modo di travestire la capitolazione crescente di fronte alla logica del mercato, che tuttavia riusciva tanto poco a risolvere i problemi economici quanto i temporanei ritorni a un maggiore dirigismo. Ogni impresa, ogni regione cercava di conservare la maggior parte possibile del plusvalore realizzato. Il governo centrale aveva sempre meno potere sulla vita economica, mentre il dislivello tra Nord e Sud si accentuò invece di diminuire e il Nord diventò sempre più allergico alle misure ridistributive. Ogni passo avanti nell’abbandono del dirigismo statale, così come ogni tentativo di legare alla produttività i salari e l’accesso alle risorse, rafforzava gli squilibri regionali. Inoltre, per colmare gli enormi deficit nella bilancia commerciale, la Jugoslavia cominciò verso il 1960 a indebitarsi all’estero, uno dei fattori che più tardi avrebbe maggiormente contribuito a stringere il cappio al suo coll.
Nel 1974 lo Stato centrale capitolò definitivamente e cedette quasi tutte le competenze alle sei repubbliche federali. Solo l’autoritarismo riusciva a conservare ancora fino alla morte di Tito (1980) questo sistema già completamente dissolto. Negli stessi anni si assistette ancora ad uno pseudo-boom dell’economia jugoslava finanziato tramite crediti. L’industria tuttavia non riusciva ad adeguarsi agli standard mondiali, e alla fine il paese rimase con una montagna di debiti. Il pagamento degli interessi divorava le ultime risorse e diventava negli anni ottanta il problema più urgente dello Stato. Nacque l’iperinflazione, la produzione diminuì drasticamente, la disoccupazione aumentò vertiginosamente. Ogni repubblica cercava di uscire per conto suo da questa situazione insostenibile. Ciò significava per il Nord di togliere ogni legame con il Sud (cosa avvenuta largamente già prima del 1991), benché la guerra economica danneggiasse fortemente tutte le repubbliche, anche quelle del Nord. La Serbia invece non voleva rinunciare ai ricchi cugini; e una volta costrettovi, ha cercato di accaparrarsi la maggior quota possibile della massa fallimentare dello Stato comune jugoslavo. Il tentativo dell’ultimo governo panjugoslavo di avviare nel 1989 una terapia di choc di tipo liberista fece esplodere tutte le contraddizioni e finì con un generale “si salvi chi può”. Il governo serbo boicottò apertamente le riforme. L’arrivo al potere di nazionalisti radicali in ogni repubblica completò il quadro. Ma i loro continui richiami a un lontano passato non possono nascondere il loro carattere radicalmente “postmoderno”. La loro ragione d’essere è il tentativo di prendersi, anche con le armi, le poche risorse ancora disponibili. (Per dare un esempio, la repressione della maggioranza albanese nel Kossovo aveva anche la funzione di dare alla minoranza serba tutti i posti di lavoro nel settore statale, per quanto miseri.) La definitiva disintegrazione dello Stato jugoslavo nel 1991 avveniva già in un clima di totale anomia sociale, rispetto a cui l’ingerenza di Stati esteri era un fattore secondario. Durante la guerra cessava poi, soprattutto in Serbia, qualsiasi attività economica “normale”. Nella guerra non si fronteggiavano “Stati” in senso classico, come essi stessi pretendevano, ma bande armate il cui interesse principale era sopravvivere. Non era più lo Stato a finanziare i suoi soldati, ma questi si autofinanziavano. Mentre nelle guerre classiche, la militarizzazione dell’economia e della società è un presupposto della vittoria, le milize jugoslave operavano senza un simile retroterra, perché era irrealizzabile. Insieme ai resti del vecchio apparato statale e alla criminalità organizzata, esse costituiscono una nuova forma di potere pseudo-statale. Durante la guerra, la logica del mercato ha continuato a funzionare in pieno, ma in forma definitivamente imbarbarita. Il saccheggio era il nervo di questa guerra, che per molti era soprattutto un affare in un paese in cui da tempo non si facevano più affari; e c’era dunque chi aveva interesse a tirarla il più possibile per le lunghe. Una decisione militare non venne cercata da nessuna delle parti in conflitto. Solo quando non vi era più niente da saccheggiare, è diventato essenziale l’aiuto estero, di cui ha profittato soprattutto la Croazia.