Ernst Lohoff
1.
La dittatura universale della merce e del denaro ha causato la deflagrazione del sistema di riferimento fondato sull’autonomia regionale o nazionale ed ha originato un tessuto connettivo che ha invaso tutto il globo. L’internazionalismo che per i nostri predecessori, fautori del progresso, rappresentava un assioma sacro, è divenuto per noi, loro discendenti, una realtà quotidiana al di là di qualsiasi giudizio morale. Chi oggi sta in sella ad una bici di marca “tedesca”, può stare certo che le sue singole parti sono state fabbricate in non meno di dieci paesi diversi da individui di una settantina di nazionalità. Una catena di fast food nota a livello mondiale afferma con estrema serietà che i suoi prodotti hanno assolutamente lo stesso sapore in tutte le sue filiali, si trovino a Buenos Aires, Mosca o Holzminden. La scomparsa delle foreste tropicali e l’allargamento del buco nell’ozono sono fenomeni dovuti all’azione congiunta di tutte le nazioni industrializzate. Le regioni mondiali costituiscono, ormai da lungo tempo, un sistema di vasi comunicanti per ciò che riguarda l’economia, l’ecologia e la cultura del quotidiano.
Questo incontestabile considerazione ci porta ad una conclusione. Se gli Stati nazionali esistenti, posti di fronte alla sfida, oggi inevitabile, costituita dai flussi di capitale finanziario, di uomini e di inquinamento ambientale, sembrano essere giunti ai limiti della loro capacità di intervento, allora organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea o le “Nazioni Unite” non dovrebbero prendere prima o poi il loro posto una volta per sempre? Non è forse vero che un mercato mondiale implica necessariamente uno Stato mondiale?
2.
Non molto tempo fa i trionfanti apologeti dell’economia di mercato e della democrazia e i loro ultimi critici erano largamente d’accordo tra di loro riguardo a questa previsione. Ma nel frattempo il paradigma del “nuovo ordine mondiale” si è rivelato del tutto logoro molto prima della sua realizzazione. Dal ballon d’essai del Golfo Persico, passando per i negoziati del GATT, fino ad arrivare alla Conferenza di Rio, la tanto decantata “politica interna mondiale” ha potuto esibire solo risultati risibili. Le forze centrifughe si dimostrano molto più intense di quelle unificatrici. Gli odierni Stati nazionali non si evolvono gradualmente, a formare unità politiche sovracomprensive; viceversa tali Stati, all’Est e nel Sud, crollano in successione uno dopo l’altro
La disillusione è spesso un terreno fertile per la memoria. Considerando il precoce smantellamento del “nuovo ordine mondiale” appare evidente quanto poco originale fosse l’idea stessa di “One World”. Simili progetti e previsioni di unificazione (compreso lo Stato mondiale) sono emersi in continuazione negli ultimi tre secoli e l’andamento dei fatti li ha di volta in volta smentiti. Già per l’Illuminismo del 18° secolo, tendenzialmente cosmopolita, l’idea dello “Stato mondiale” era un postulato indiscutibile, del tutto conforme alla natura, ed un progetto da perseguire nel futuro; tuttavia la società borghese si organizzava nella forma di Stati nazionali con tanto di confini precisi che li limitavano nei confronti dell’esterno. All’inizio del nostro secolo le figure più eminenti dell’Imperialismo classico sostenevano che, in futuro, nella guerra tra le potenze sarebbero sopravvissuti solo grandi blocchi imperiali chiusi. Ci si attendeva che la costituzione del mercato mondiale avrebbe semplificato nell’immediato ed in modo duraturo la mappa politica della Terra. I critici marxisti condividevano questa prospettiva. Un leader teorico della socialdemocrazia, Hilferding, credeva addirittura nella creazione definitiva di un unico “superstato imperialista” esteso su tutto il globo. Ma la realtà se ne infischiò altamente di queste estrapolazioni. Quando Hilferding, nel 1910, strombazzò ai quattro venti le sue previsioni, esistevano solo due dozzine di Stati nazionali sulla faccia della Terra; settant’anni dopo erano almeno sei volte tanto. Con la caduta dell’ordine bipolare del dopoguerra questa tendenza storica si è nuovamente accelerata. Mai in precedenza c’era stato un tale livello di interdipendenza tra le regioni mondiali e tuttavia mai le unità politiche indipendenti sulla Terra sono state tanto numerose come oggi.
La smentita che si manifesta nello sviluppo reale di questo secolo è troppo importante perché ne siano responsabili solo errori o fatti aleatori nei processi decisionali della politica. Si fa strada con forza un sospetto. Forse il tanto acclamato “One World” non deve fare i conti solo con un percorso le cui difficoltà potrebbero essere superate grazie all’azione di lungimiranti statisti globali; forse esso sarà condannato a restare per sempre una figura spettrale poiché una cogente logica interna sovrintende al suo naufragio. E’ possibile che la statalità e la politica moderne siano legate alla forma dello Stato nazionale come un tempo la democrazia antica all’esistenza della Polis.
3.
Tale supposizione può essere confermata. Il mercato mondiale rende i produttori di merce interdipendenti, ma non promuove la costituzione di interessi generali comuni ed una graduale uguaglianza delle relazioni tra gli uomini. Invece la crescente interdipendenza va di pari passo con una sempre maggiore disuguaglianza. Gli attuali “vincitori” nella lotta della concorrenza, perseguendo soltanto i propri interessi, contribuiscono, che lo vogliano o no, alla miseria dei perdenti. La loro situazione relativamente favorevole si fonda essenzialmente sulla continua esternalizzazione ed indifferenziazione di tutti gli oneri che derivano dalla furia cieca di quel processo di valorizzazione in cui essi hanno successo. Il singolo capitale realizza il suo profitto vanificando le possibilità di realizzazione degli altri capitali e conducendoli alla rovina; così esso prospera tanto più, quanto più riesce ad accollare agli altri i propri costi di produzione. Mentre dal punto di vista strettamente economico i concorrenti che hanno la peggio nello scontro, presentano il conto a lavoratori e collaboratori, i sempre più pesanti e numerosi guasti ecologici conseguenti alla produzione di ricchezza astratta finiscono come al solito a carico di una determinata generalità anonima.
Gli interventi statali pongono certi limiti al meccanismo inerente alla produzione di merci all’interno di un’unità politica. Al precoce deterioramento della merce forza-lavoro si oppone la regolamentazione giuridica delle condizioni in cui si lavora; lo Stato garantisce ai suoi cittadini attraverso la redistribuzione monetaria un livello minimo di sostentamento; la distruzione delle risorse naturali non avviene in modo sregolato ma progettata e portata avanti nel quadro di normative legali e disposizioni eccezionali. Ma questa funzione regolativa non fa sì che lo Stato e la politica rappresentino delle forze in grado di contrapporsi alla logica della valorizzazione e dell’esternalizzazione. Lo Stato mette numerose briglie ai singoli capitali ma in quanto entità separata che coesiste con “l’economia”, presuppone sempre come proprio fondamento la valorizzazione di questi capitali. Dal punto di vista finanziario il successo dello “Stato delle tasse” si basa sul successo di quei capitali che operano nella sua sfera di influenza. Esso metterebbe a repentaglio la sua stessa esistenza se volesse prendere dei provvedimenti senza riguardo per la capacità concorrenziale dei capitali locali e in particolar modo contro l’esternalizzazione dei costi. Il mercato mondiale genera inevitabilmente vittime, perdenti e danni che derivano dalla sua azione, quindi la politica, ammettendo aprioristicamente la forma-merce, il denaro e le leggi costrittive del mercato mondiale, deve accollarsi anche le immancabili conseguenze del processo di valorizzazione. Non può battersi seriamente contro i costi di produzione della ricchezza astratta, anzi deve darsi da fare per risultare vincente dalla divisione globale di tale ricchezza. Lo Stato assolverà bene il compito che gli è stato assegnato a priori se, per quanto possibile, esporta i danni conseguenti alla valorizzazione del capitale fuori dai suoi confini, evitando tale onere al proprio territorio nazionale.
La logica basilare secondo cui gli interventi statali all’interno del proprio territorio si trasformano in uno strumento per trasferire i costi da una nazione all’altra, è facilmente esemplificabile.
I legislatori nell’Europa Occidentale hanno ritenuto necessario intervenire in senso normativo nell’ambito delle condizioni di lavoro. Le prerogative del diritto del lavoro difendono i lavoratori da determinate forme di usura precoce e dai danni alla salute. In realtà sono scomparse solo alcune forme inumane di sfruttamento e solo in quei settori resi obsoleti dal progresso tecnologico. Al contrario ritroviamo con facilità tali forme o addirittura ne sorgono di nuove, nei rami produttivi in cui esse sono funzionali al processo di valorizzazione, dato il livello attuale di produttività. La fiorente industria informatica ed elettronica impiega, soprattutto nel Sud-Est asiatico, decine di migliaia di giovani donne nell’assemblaggio di circuiti. Questa attività da certosini conduce ben presto all’indebolimento della vista e spesso alla cecità. L’utilizzo di sostanze chimiche comporta del resto la rovina fisica delle lavoratrici nel giro di pochi anni. Nell’Europa Occidentale tali condizioni di lavoro sono naturalmente proibite. Esse tuttavia sono scomparse dalle metropoli solo perché i lavoratori delle stesse possono godere dei frutti di questo lavoro degradante nella forma di importazioni, senza essere posti di fronte alle vittime di quel lavoro e al male che ne subiscono. La salute distrutta delle lavoratrici non emerge come fattore di costo per la previdenza sociale o per la sanità; i prodotti di questo lavoro sono integrati quasi automaticamente nel ciclo di valorizzazione dei capitali. Nel mondo del libero commercio nessun potere può ostacolare questa trionfale “divisione del lavoro internazionale”, neppure l’azione politico-statale.
Questa esternalizzazione della devastazione non riguarda solo il fondamento umano della produzione di ricchezza, ma automaticamente anche le basi naturali. Come l’espressione “libertà del commercio” è in pratica un sinonimo per la libertà dei paesi centrali del capitalismo così tali paesi capitalistici avanzati monopolizzano di fatto il godimento dei “beni liberi” di questo mondo. Al contrario i parenti poveri del Sud possono partecipare come “cittadini” a pieno titolo solo della distruzione che si origina collateralmente, del consumo dei veleni prodotti ecc.
Che gli interventi legislativi e di controllo politico siano poco adeguati ad affrontare questa logica di fondo, lo dimostra non solo la “politica delle ciminiere” degli anni’60 ma anche un fenomeno odierno come l’esportazione delle scorie. La macchina da valorizzazione della Repubblica Federale Tedesca minaccia anno dopo anno di soffocare a causa della mole di rifiuti prodotta. Lo Stato tedesco reagisce necessariamente all’attuale emergenza-rifiuti, ma naturalmente lo fa in modo conforme al mercato. A causa della resistenza della popolazione diventa sempre più difficile trovare nuovi terreni per le discariche. Lo stoccaggio nell’atmosfera non è perseguibile come soluzione generale. I costi per l’interramento dei rifiuti crescono sempre più. La conseguenza non è certo la diminuzione della montagna di sporco. L’immondizia si muove come sospinta da una mano spettrale seguendo le condizioni più favorevoli dal punto di vista dei costi, fino al di là delle frontiere dove si trova un ambiente più disponibile. Dietro questo scandalo si nasconde il sistema o meglio la costrizione sistemica. Qualsiasi bimbo e dunque ogni specialista sa che il problema dei rifiuti non coincide con il problema della loro eliminazione. Esso può essere risolto solo attraverso trasformazioni del modo di produzione. L’obbiettivo della minimizzazione dell’immondizia deve diventare parte costitutiva della pianificazione dei prodotti e della produzione. Ma non è permesso allo Stato ex definitione l’intervento in questo ambito. Esso si alimenta della macchina della valorizzazione capitalista, della sua cieca processualità, e così percepisce la ricchezza astratta ma risulta insensibile alla qualità materiale. Qualsiasi provvedimento limitato alla questione ecologica può solo essere imposto burocraticamente nella forma di legge generale e astratta dall’esterno. Se lo Stato volesse incatenare tali processi, finirebbe con lo strangolarsi del tutto.
4.
La connessione tra lo Stato e l’obbligo di esternalizzare attinge un livello ancora più profondo. Il controllo politico non solo deve avere riguardi per un fattore esterno chiamato “economia” per porsi al servizio dell’esternalizzazione dei costi, che di per sé gli è estraneo, ma lo stesso paradigma odierno fondato sullo Stato unitario è un risultato della logica dell’esternalizzazione.
La capacità di competere sul mercato mondiale all’attuale livello di socializzazione non dipende solo da fattori che si trovano nel raggio d’azione dei singoli capitali. Al possibile successo delle imprese sul mercato mondiale contribuiscono per lo meno in uguale misura le strutture di base generali della società nel suo complesso. Una efficiente rete di trasporti ed un sistema di comunicazioni funzionale ed esteso sono decisivi per le chances di valorizzazione, così come lo stato del sistema educativo e l’apparato amministrativo del territorio. Tutti questi diversificati settori costituiscono il presupposto insostituibile di una produzione di merci sviluppata, ma essi non possono strutturarsi conformemente alle esigenze della produzione di merce o lo possono solo in modo assai limitato. Perciò ricadono nella sfera di competenza dello Stato e delle sue attività.
Per quanto tutte questi ambiti funzionali siano necessari per il processo di valorizzazione essi costituiscono simultaneamente dei fattori di costo. Lo Stato moderno vive una duplice esistenza, come Stato interventista da un lato e come Stato esattore delle tasse dall’altro. Esso non riesce a venire a capo di questo dilemma. Se trascura i suoi compiti nel settore delle infrastrutture per ragioni ideologiche o altro questo comporta, presto o tardi, effetti devastanti sulla capacità concorrenziale dell’economia. Gli USA e la Gran Bretagna durante l’era Thatcher possono valere come esempio ammonitore. Se lo Stato si ingrossa con le tasse finisce col divenire un ostacolo al processo di accumulazione. Quale rilevanza abbia questo aspetto, in seguito allo sviluppo progressivo delle forze produttive, per il processo complessivo di accumulazione lo si può osservare dall’andamento della percentuale della quota statale sul prodotto interno lordo. Tale quota si attestava, all’inizio del secolo, nelle principali economie nazionali al di sotto del 10%, oggi negli stessi paesi, è giunto alle soglie del 50%. L’attività statale diventa così un fattore decisivo nella battaglia della concorrenza capitalistica.
Il moderno Stato interventista può dimostrare la sua efficienza solo se riesce a creare un grado elevato di omogeneità all’interno dei suoi confini. Lo Stato liberale del 19° secolo, che si limitava al ruolo di “guardia notturna”, riusciva ancora a riunire sotto il medesimo tetto politico regioni del paese con diversi gradi di sviluppo. Al contrario sullo Stato moderno che deve assolvere ai suoi doveri nel campo delle infrastrutture in maniera più estesa e che pone le basi del processo di valorizzazione con la sua politica monetaria e fiscale, gravano dislivelli economici interni dall’effetto dirompente. Lo svolgimento delle attività statali, dalle istituzioni socio-politiche agli investimenti infrastrutturali, dalla regolazione giuridica alla politica monetaria ed economica, non è mai un campo adeguato alla valorizzazione capitalistica, che procede su di un livello di socializzazione differente. L’ottimizzazione delle condizioni della valorizzazione sotto l’imperativo della divisione del lavoro internazionale, equivale all’adeguamento delle politiche sociali ed economiche della nazione alle esigenze di uno specifico segmento della valorizzazione stessa. Un paese come la Corea del Sud che, in quanto ex-colonia, tentava di integrarsi nel mercato mondiale come fornitore di materie prime grezze e di prodotti agricoli, si poté dedicare negli anni’60 e ’70, solo alla produzione di beni di massa a basso costo, che non necessitavano di nessuno speciale presupposto di avanzata socializzazione. La Corea doveva sfruttare le risorse di cui disponeva: bassi costi salariali ed un forza lavoro di poche pretese e ben disciplinata. L’edificazione di una progredita rete sociale sarebbe stata, in tali condizioni, un investimento palesemente erroneo così come allocare notevoli risorse nella ricerca fondamentale. Per un paese come la Germania la situazione è completamente differente. Nei segmenti produttivi in cui i paesi emergenti dell’Estremo Oriente celebrano i loro successi (acciaio a buon mercato, cantieristica navale ecc.), i capitali tedeschi, considerati i più elevati standard infrastrutturali ed i costi sociali comparativamente maggiori, non possono tenere il passo sin dal principio. Il livello di socializzazione con i relativi costi che in questi settori si trasforma in un handicap per il sito produttivo, diventa un vantaggio in quei settori dove una socializzazione più progredita consente un profitto. Il sito “Germania” presenta un vantaggio evidente nei settori high-tech e nei segmenti di valorizzazione in cui il funzionamento senza attriti e organizzato di meccanismi integrati che trascende la singola impresa ha un importanza superiore rispetto al lavoro di produzione meccanizzato e diretto. Invece di abbassare i costi salariali e infrastrutturali fino a livelli sudcoreani, lo Stato federale deve darsi da fare allo scopo di mantenere questi parametri di successo.
L’obbligo da parte della politica economica nazionale istituzionalizzata ad adattarsi ad un settore specifico non si concilia con l’esistenza all’interno dei confini nazionali di regioni arretrate. Le regioni povere sono doppiamente escluse dalla partecipazione al processo di valorizzazione. Esse non sono in condizione di contribuire nei settori ad alta tecnologia, perché carenti, almeno in parte, di presupposti infrastrutturali, e nello stesso tempo gli sono preclusi altri settori della valorizzazione, caratterizzati da esigenze tecniche inferiori. A sbarrare l’ingresso in questi settori è essenzialmente l’elevato livello salariale che è determinato dalle regioni vittoriose così come del resto gli standard sociali e giuridici che sono validi su tutto il territorio nazionale. Pertanto queste regioni sono inchiodate ad un’esistenza di degrado sociale e quanto più marcate si fanno le discrepanze tanto più esse partecipano ai flussi di redistribuzione infranazionali solo come beneficiarie. Lo Stato vincitore sul mercato mondiale deve servirsi dei suoi strumenti redistributivi per cercare di colmare i dislivelli di sviluppo. Il processo della concorrenza crea durevoli disparità regionali. L’efficienza del moderno Stato nazionale si misura essenzialmente sul fatto che esso riesca o meno ad appianare queste differenze. Lo Stato nazionale a costo di notevoli sforzi può aiutare le sue regioni arretrate a spiccare il salto o altrimenti prepararsi al naufragio. Quanto più il mercato interno è soggetto in modo immediato alle esigenze del mercato mondiale tanto più è improbabile che il potere politico centrale possa tenere testa alle forze centrifughe del mercato stesso. Il mercato mondiale genera cioè una massiccia differenza (regionale) di peso specifico. Lo Stato, l’unità politica, deve produrre al suo interno condizioni di vita e di valorizzazione per quanto possibile unitarie, poiché il capitalismo moderno necessita di uno spazio funzionale coerente. Questa stridente contraddizione può sfociare in pratica nella suddivisione del territorio in molte unità politiche ognuna delle quali intraprende lo sforzo di omogeneizzarsi. Se osserviamo le cose più da vicino, nella catastrofica implosione statale si rivela una certa logica che va al di là dell’esistenza di divisioni etniche. La folle rapidità e la facilità relativa con cui negli anni’50 e ’60 si dissolsero gli stati coloniali, duramente saccheggiati per 500 anni, appare meno sorprendente. Questo sviluppo appare oggi sotto una luce nuova così come il fatto, stupefacente in sé, che proprio i perdenti della Seconda Guerra, con il boom del dopoguerra siano risorti come i grandi vincitori che hanno dominato il mercato fino ad oggi. La rinuncia forzata ai sogni coloniali, la brutale cura dimagrante che ha condotto il Giappone alla perdita dei suoi possedimenti nel continente asiatico e la Germania a quella dei territori agricoli dell’Est, è stata una fonte dell’eterna giovinezza per questi paesi capitalistici, poiché in questo modo essi raggiunsero involontariamente un grado di omogeneizzazione ed integrazione che le potenze vincitrici, Francia e Inghilterra, intrappolate in strutture di sfruttamento coloniale poterono conseguire solo con difficoltà e assai tardivamente.
Il messaggio è chiaro: la povertà è un fattore irrilevante per il proprio successo, basta che resti al di là dei confini; anche solo un minimo di sottosviluppo all’interno dello spazio nazionale diventa un lusso maledettamente costoso. Una base pessima su cui fondare il paradigma dello “Stato mondiale” ed il sogno di una “politica interna del pianeta”.
5.
Il processo di esternalizzazione è giunto ai suoi limiti. Inizia a girare a vuoto, mentre le spiacevoli conseguenze che si credevano eliminate, come sempre accade, finiscono col ritorcersi contro gli stessi artefici dell’esternalizzazione. Questo si verifica in una moltitudine di forme. Il buco nello strato di ozono si non spalanca solo sopra l’emisfero Sud, ma anche sulle teste dei principali produttori di fluoroclorocarburi. La devastazione in corso delle foreste tropicali a vantaggio degli importatori di legname occidentali non minaccia solo l’equilibrio ecologico locale, ma anche quello globale.
I costi esternalizzati dovuti all’insensato processo di valorizzazione aziendale non portano solo crisi ecologiche ai vincitori relativi. I vincitori devono confrontarsi con disagi di tipo nuovo. Gli spiantati nell’Est e nel Sud a seguito della vittoria finale del mercato mondiale si rifiutano di morire di fame, pacificamente, senza disturbare nessuno, a casa propria. Un’avanguardia ancora quantitativamente discreta bussa alla porta delle metropoli. Ma già questo piccolo assaggio dei futuri movimenti migratori scatena il panico e conduce alla metamorfosi del nostro sub-continente aperto nella “fortezza Europa”. Soggetti monetari senza denaro penetrano nella nostro beneamato paese, e la macchina metropolitana della valorizzazione non è in grado di assorbirli come fossero materia prima. Se i paesi periferici non raggiungono il livello di vita occidentale, sono i loro abitanti a mettersi in marcia: Go West!
La risposta dei soggetti monetari che in occidente risiedono ormai da tempo non si fa attendere e naturalmente può solo consistere nella prosecuzione della vecchia logica dell’esternalizzazione su di un fondamento divenuto precario. L’elemento di crisi della società della merce assume sempre la forma della crisi altrui e così dovrebbe continuare, possibilmente per sempre. La realtà dei fatti non ci consente più di liberarci dei costi umani in modo asettico e privo di attriti, di conseguenza cresce la tendenza ad espellere gli individui dalla società anche mediante la violenza fisica immediata. Pauperes ad portas! È questo il grido di allarme alla fine della modernità. E coloro che godono dei benefici dello Stato sociale occidentale si compattano per una battaglia difensiva: “Combattere la povertà, scacciare i poveri”
La tirannia universale della società mondiale della merce ha trasformato la rispettabile astrazione “umanità” in una realtà che si può toccare con mano, ma non nel senso che gli avevano dato i suoi scomparsi creatori, intrisi di spirito umanista, ma piuttosto nella forma della catastrofe sociale ed ecologica. Il dominio della forma borghese si concretizza nel progetto dell’autodistruzione ecologica mentre gli uomini di ogni paese, invece della fratellanza universale, praticano il pogrom reciproco. Lo “One World” caro alla propaganda si realizza fatalmente nella sgradevole forma della guerra civile mondiale e come movimento di profughi su scala globale.
6.
I fenomeni barbarici di dissolvimento dell’ordine borghese ed il minaccioso disastro ecologico generano angoscia. L’angoscia si scarica innanzitutto, come da vecchia abitudine, invocando un’azione politica. Il mondo procede ciecamente verso l’abisso, quindi la politica deve intervenire e cambiare il corso del destino. La classe politica si è finora tirata indietro piagnucolando davanti a questo compito e si è dispersa nel perseguimento di ottusi interessi nazionali. Un altro tipo di politica orientata al contesto globale dovrebbe sostituire quello vecchio. In una società in cui “politica” è sinonimo di attività sociale cosciente, questo impulso è naturalmente comprensibile, almeno inizialmente. Tuttavia, se si analizza meglio la situazione, esso si rivolge alle persone sbagliate. Nella fase storica attuale all’ordine del giorno non c’è una nuova politica radicale ma la rottura necessaria ed assai più radicale con il sistema di riferimento fondato sulle categorie di “politica” e “statalità”.
Se la moderna società mondiale entra in crisi, dato che anche i vincitori non restano immuni per sempre dalle conseguenze della loro vittoria e la logica dell’esternalizzazione si spinge sino all’assurdità, allora anche la politica come modalità d’azione è giunta ai suoi limiti. Una “politica interna mondiale” dalla forma mentis cibernetica e orientata alla soluzione dei problemi globali risulta semplicemente una contraddizione in sé. La politica ed il principio dell’esternalizzazione sono intrecciati l’uno all’altra, perché l’azione politico-statale, allorché si conforma ad un’universalità astratta, riconosce a priori che la merce ed il denaro sono i veri dominatori del nostro pianeta. Come sfera speciale separata dal resto dell’agire sociale, la politica non può evitare di porsi deliberatamente al servizio di qualche interesse capitalistico. Proprio sulla base della sua forma specifica essa non va oltre il tentativo di fornire una sintesi degli interessi monetari divergenti ed ignora quei problemi che implicano sensibilità nei confronti del contenuto materiale della realtà.
Chi rimpiange il ruolo miserevole della politica, dovrebbe sorprendersi anche del fatto che un elefante non possa impersonare un ruolo da ballerina in modo completamente soddisfacente.
Dietro il desiderio di una “nuova politica” totalmente diversa si cela un altro pensiero molto più semplice che non è ancora cosciente di sé. Il processo cieco della macchina della valorizzazione ha scatenato un potenziale di distruzione completamente nuovo. Il ricambio materiale dell’uomo con la natura è divenuto catastroficamente incontrollabile così come le orde che si danno battaglia nella società della merce. Di fronte a questo minaccioso scenario è necessario intervenire e reagire coscientemente, senza alcun riguardo per la logica monetaria e giuridica. Se nell’antica Unione Sovietica le centrali nucleari completamente in disarmo non vengono chiuse, nonostante sia prevedibile un’intera serie di nuove Chernobyl, perché, in caso contrario, sarebbe pregiudicato il rifornimento energetico nazionale, allora la società mondiale deve prepararsi a garantire il necessario approvigionamento energetico senza l’intermediazione del dollaro o del rublo. Se nel cosiddetto Terzo Mondo i fondamenti della sopravvivenza vengono distrutti a favore di monocolture orientate all’esportazione, poiché solo così questi paesi possono ottenere valuta, allora deve sorgere un nuovo pragmatismo antimonetario che permetta a questi paesi di avere tutti i beni di importazione necessari anche senza contropartita finanziaria. Il controllo del flusso delle risorse materiali si deve emancipare dalla signoria del denaro.