31.12.2003 

Appunti su il “Manifesto contro il lavoro”

(INFOXOA Nr. 016, Roma 2003, www.infoxoa.org)

Per Luca Santini

Questo libello recentemente uscito presso l’editore Deriveapprodi consente al pubblico italiano di conoscere in modo chiaro ed esauriente le idee elaborate in circa vent’anni di attività dal collettivo di intellettuali tedeschi denominato Krisis.

Gli autori di questo volumetto svolgono il loro discorsoconfrontandosiin modo critico e radicale direttamente con il capitalismo, definito come “sistema produttore di merci, tautologico e svincolato”; essi hanno di mira non un particolare aspetto del sistema produttivo capitalistico, né una sua particolare fase di svolgimento storico: si riferiscono al nucleo essenziale che caratterizza la formazione sociale capitalistica. E dichiaratamente ambiscono alla sua negazione e/o al suo superamento.

Elemento caratterizzante di questa innovativa teoria critica del capitalismo e’ la coincidenza, affermata dagli autori, tra capitale e lavoro. Si legge a pagina 20 che “la contrapposizione sociale tra capitale e lavoro e’ soltanto la contrapposizione di diversi interessi all’interno del fine tautologico del capitalismo”. Il capitale, in altri termini, ha per obbiettivo la produzione in larga scala di merci, prodotte al fine di accumulare denaro; viene esclusa quindi dalla sua logica qualsiasi considerazione di merito circa l’utilita’ o meno del produrre questa o quella merce; il criterio valutativo del capitale e’ sempre astratto, svincolato dal mondo concreto dei valori utili delle merci, ed e’ fondato sul fine tautologico dell’accumulazione monetaria. Il lavoro, pur rappresentando spesso interessi contrapposti a quelli del capitale, non si sottrae a questa logica fondamentale: anch’esso sposa l’ideologia della crescita fine a se stessa; e per questa via si trova a condividere e ad assumere come propri i programmi di volta in volta elaborati dal capitalismo.

Su questo punto fermo (sulla coincidenza tra capitale e lavoro) si innesta la seconda convinzione del gruppo Krisis, quella per cui ci troveremmo oggi nel bel mezzo di una crisi senza ritorno della societa’ del lavoro. La merce-lavoro, infatti, scarseggia, e nessuna politica di welfare cosi’ come nessuna soluzione di stampo liberista riusciranno a restaurare il mito tramontante del lavoro. La disoccupazione (dovuta principalmente al progresso tecnologico e informatico), diverra’ sempre piu’ massiccia, mettendo cosi’ in forse non soltanto la sussistenza materiale dei cittadini-lavoratori, ma anche la capacita’ stessa del capitale di progredire nel processo di accumulazione. Il lavoro, in sostanza, starebbe scomparendo, e il capitalismo, di conseguenza, si starebbe avviando verso la sua crisi definitiva.

Cosi’ ricostruite le tendenze economiche contemporanee, ben si comprende l’opzione politica patrocinata dal gruppo Krisis; essi rifiutano, come e’ ovvio, stante l’imminente catastrofe sistemica, ogni strategia riformista, quale la riduzione dell’orario di lavoro, il riconoscimento di attivita’ sociali extralavorative, la distribuzione di un reddito di esistenza, ecc.Ognuna di queste “riforme” avrebbe infatti l’effetto mero di perpetuare unsistema sociale (quello capitalistico) inumano e ormai prossimo ai suoi invalicabili limiti storici.

Una politica all’altezza dei tempi e’ invece quella che sul piano teorico elabora coscientemente la critica del lavoro, mentre sul piano pratico pone in essere azioni di appropriazione, tese a creare un nuovo spazio pubblico, e una nuova societa’ civile autorganizzata e consapevole dei propri bisogni.

Questi punti schematicamente tracciati meritano dei brevi approfondimenti critici.

1)LAVORO=CAPITALE.

La critica al lavoro, in quanto alleato e rovescio del capitale, e’ giusta e stimolante; e’ una verita’ che, sebbene intuita gia’ da Marx, diviene evidente solo ai nostri giorni. Gli autori del gruppo Krisis non afferrano tuttavia il momento cruciale su cui si fonda l’alleanza sotterranea tra capitale e lavoro; essi occultano infatti il momento della creazione e dell’estrazione di plusvalore, cioe’ il processo per cui il lavoro produce valori di cui il capitale si impossessa. Gli autori coinvolgono in un’unica critica il capitale e il lavoro poiche’ entrambi risultano animati da un agire strumentale, dimentico degli scopi concreti e dei fini materiali insiti nell’attivita’ di produrre.

Tale argomentazione, dall’indubbio sapore francofortese, spinge il gruppo Krisis a caratterizzare riduttivamente l’intero movimento dei lavoratori; i partiti operai, infatti, nascerebbero dalla sconfitta delle prime rivolte anti-capitaliste (guerra dei contadini, luddisti, ecc.), e sarebbero il segno dell’avvenuta accettazione del paradigma lavoristico-capitalistico.

Il gruppo Krisis oblitera in tal modo una grande parte della storia del movimento operaio, e omette in particolare di considerare che tale storia, lungi dall’essere monolitica e monocorde, e’ stata attraversata al suo interno da una pluralita’ di opzioni confliggenti. Due filoni come minimo si possono individuare in seno al movimento operaio, uno riformista l’altro rivoluzionario. Quello in effetti ha stretto con il capitalismo un patto di ferro, provvedendo a smussarne gli aspetti piu’ intollerabili; questo invece ha sempre sognato una societa’ di produttori associati, liberi di muoversi entro un corpo sociale organizzato democraticamente.

La critica al lavoro come agire strumentale, inoltre, appare riduttiva perche’ rimuove il carattere dialettico e conflittuale che storicamente ha avuto il rapporto sociale tra capitale e lavoro. Il gruppo Krisis non spende una parola contro l’elemento del comando, ossia contro la caratterizzazione essenziale del lavoro in ambiente capitalistico; gli operai del secolo scorso hanno costantemente tentato di mettere un freno e un limite alla volonta’ del padrone, frapponendo un elemento di resistenza ai piani del capitalismo. Il movimento dei lavoratori e’ stato insomma un movimento a favore della dignita’ umana; questo e’ l’elemento comune che ha permesso ai due movimenti operai, cui sopra si e’ fatto cenno, di sentirsi parte di un’unica storia, nonostante le molte e profonde differenze politiche che in ogni passaggio storico li hanno divisi.

Il giudizio riduttivo sul movimento dei lavoratori e’ gravido di conseguenze: tagliando i ponti sia con la tradizione, sia con il corpo sociale reale, il gruppo Krisis e’ costretto a rifugiarsi in un’opzione politica che mescola clamorosamente uno scenario radicalmente soggettivistico, con un’analisi interamente oggettivistica. Il soggetto che dara’ avvio alla prassi riappropriativa non e’ infatti individuato sociologicamente, esso e’ un aggregato di individui che si trovano improvvisamente d’accordo con l’idea di rifiutare il lavoro (e il capitale). Ma che cosa rendera’ finalmente possibile questa nuova prassi rivoluzionaria? Risposta: l’avvento della crisi: non una crisi passeggera -avvertono i nostri- bensi’ LA crisi tanto attesa, quella che portera’ al crollo della societa’ basata sul lavoro astratto. Il movimento di appropriazione sarebbe dunque nient’altro che l’attivazione semi-spontanea di meccanismi sociali di cooperazione, una sorta di anticorpi posseduti inconsciamente dall’intelligenza collettiva degli uomini. Prima di sprofondare nalla miseria e nella regressione storica, insomma, gli uomini si darebbero da fare, tentando di dar vita a un ordine autoregolato. Quanto sia appetibile e politicamente proficua questa opzione neo-miserabilista ciascuno e’ in grado di valutarlo.

2)FINE DEL LAVORO.

Interessante e’ anche valutare la pregnanza del secondo presupposto della riflessione del gruppo Krisis, quello incentrato sull’ipotesi della fine del lavoro. Questo assunto analitico, giusto o sbagliato che sia, e’ imposto al lettore in modo apodittico, senza portare a supporto alcun elemento di sia pur parziale dimostrazione. E’ diffusa in effetti negli ambienti teorici antagonisti una tendenza ad enunciare concetti astratti (come ad esempio sussunzione reale, diffusione del lavoro immateriale, fine del lavoro, ecc.), descrittivi di fatti sociali importanti, senza fornire i dati statistici o economici che legittimerebbero le letture proposte. Quello introdotto dal gruppo Krisis e’ comunque un tema fondamentale, su cui si giochera’ la piu’ grande parte del match politico contemporaneo. Lo sforzo teorico dovra’ del pari appuntarsi su questa tematica, cioe’ sull’individuazione della tendenza profonda che si agita in seno alla societa’ del lavoro.

Le posizioni attualmente sul campo sono assai varie e variamente graduate; un’idea della complessita’ del dibattito ciascuno potra’ farsela compulsando almeno qualcuno dei numerosi libri e articoli scritti in risposta al fortunato saggio di J. Rifkin “La fine dal lavoro”. Il gruppo Krisis, ad esempio, sembra sposare quasi per intero la tesi dell’economista americano; altri mettono in evidenza che il lavoro, anziche’ restringersi, tende continuamente ad estendere la propria sfera di influenza; altri ancora, marxisti piu’ ortodossi, fanno notare che a livello globale e’ in aumento addirittura il lavoro operaio in senso stretto.

In merito al “Rifkin-debate” la posizione piu’ corretta mi sembra quella di chi afferma che non siamo giunti alla fine del lavoro, ci troviamo bensi’ a un semplice (seppur importante) punto di svolta e di riorganizzazione. La disoccupazione non e’ il problema esplosivo che condurra’ alla fine dell’epoca moderna, perche’ contemporaneamente alla distruzione dei vecchi, tipici “posti di lavoro”, nuovi lavori sorgono, e nuove occasioni di estrazione del plusvalore continuamente crescono.

Si puo’ affermare al limite, in modo (solo parzialmente) provocatorio che in Italia, oggi, LA DISOCCUPAZIONE NON ESISTE.

Le statistiche ufficiali parlano di un tasso di disoccupazione per il nostro paese che si aggira attorno al 12%; altre statistiche, ugualmente attendibili, rendono noto pero’ che l’economia irregolare contribuisce alla produzione nazionale in variabili stimate tra il 20% (secondo il Censis) e il 30% del PIL (secondo il CESTES); il Censis avverte inoltre che negli ultimi anni l’economia sommersa E’ CRESCIUTA A TASSI PIU’ ELEVATI dell’economia regolare. Nell’ambito dell’economia informale (ma fuori dalle statistiche) va ricompreso anche quel vasto settore di volontariato impegnato specialmente nelle realta’ associative; si tratta di un grande numero di persone (qualche milione di italiani/e, probabilmente) che impegnano il proprio tempo in modo gratuito o semigratuito, secondo modalita’ assimilabili alla spendita di tempo lavorativo: il volontariato, infatti, si esercita fuori casa, in un luogo simile ad un ufficio; spesso vincola il volontario a degli impegni e a degli orari tipici del salariato; occupa il panorama mentale ed emotivo con la stessa pervasivita’ che siamo soliti attribuire al lavoro in senso stretto. Questi dati sembrerebbero sufficienti a sfatare il mito della disoccupazione crescente; la produzione contemporanea, in realta’, offre una miriade di occasioni di lavoro; il concetto di disoccupazione andrebbe radicalmente revisionato.

Il disoccupato non e’ il soggetto inattivo e triste, irrimediabilmente incapace di vendere le proprie competenze sul mercato. Il disoccupato e’ quasi sempre impegnato in lavori di breve durata, in corsi di formazione, in occasioni e luoghi multiformi della produzione odierna. Ma, si obiettera’, puo’ definirsi lavoro questo? Certamente, tutto sta nell’intendersi sul concetto postfordista di lavoro. E’ preferibile, per motivi di chiarezza scientifica, abbandonare del tutto il concetto e il termine di “lavoratore”, da sostituire con “procacciatore di reddito”. L’odierno procacciatore di reddito si pone alla ricerca di una fortunata occasione di successo economico; osserva con attenzione i flussi di denaro, merci e servizi, cercando di inserirsi in uno di essi, oppure di creare, dai flussi esistenti, una derivazione capace di attraversare le sue competenze. In questo passaggio dal lavoratore al procacciatore di reddito sta tutto il senso della transizione contemporanea. Si coglie in questo la colossale tendenza all’individualizzazione della prestazione lavorativa (sono circa 13 milioni i lavoratori individuali in Italia, ossia il 50% della forza-lavoro occupata), si coglie il senso delle forti e visibili tendenze alla desolidarizzazione del corpo sociale, si coglie il perche’ dalla attuale crisi della politica e della rappresentanza, ecc..

In questo senso specifico e storicamente situato ha senso l’affermazione di Krisis circa la fine del lavoro; nel panorama mentale dei procacciatori di reddito il lavoro non e’ mai una ragione di vita, ne’ un luogo di individuazione o di affermazione sociale: esso e’ un’occasione mera di reddito, l’attivazione quasi meccanica di un erogatore di denaro.

Due sembrano pertanto le questioni sociali che si profilano all’orizzonte, e che appaiono destinate ad esplodere in modo conflittuale: 1) il problema del reddito, connesso a quello dell’articolazione del tempo impiegato nel reperire un reddito; 2) la questione della valorizzazione di attivita’ sociali ormai indistinguibili da quelle remunerate (tipo volontariato nelle associazioni), e che tuttavia vengono penalizzate perche’ non riconosciute come socialmente meritevoli di reddito.

Questi due elementi di tensione creano una “questione sociale” di nuova specie, del tutto inedita, non piu’ fondata sulla miseria e sulla scarsita’ delle risorse, bensi’ tesa a governare la strabordante ricchezza del corpo sociale, evitando che questa si concretizzi in una paradossale forma di poverta’ in termini di tempo e reddito.

3) UNA POLITICA DI RIAPPROPRIAZIONE:

non vi e’ naturalmente da fare alcuna osservazione di principio contraria all’opzione patrocinata dal gruppo Krisis. Le politiche, pero’, discendono dall’analisi, dalla corretta individuazione delle tendenze sociali.

Se quanto detto a proposito dalla “nuova questione sociale” appare plausibile, va da se’ che lo spettro di nuove politiche possibili e’ assai piu’ ampio di quanto non credano gli autori tedeschi