La crisi della modernità dedotta dai principi della critica del valore
Riccardo Frola
Questo testo è stato pubblicato per la prima volta come postfazione al libro “Crisi, nella discarica del capitale”, di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, pubblicato dalla casa editrice italiana Mimesis nel 2015. Il testo è integrale e non ha subito modifiche: è stata aggiornata soltanto la piccola bibliografia.
I. Sulle spalle del gigante.
«Non c’è via maestra per la scienza, e solo hanno una possibilità di raggiungerne le vette luminose coloro che non temono di affaticarsi a salirne i ripidi sentieri»*.
Karl Marx, Il Capitale.
La crisi dilaga. Il ceto medio di buona parte dell’Eurozona è sotto un continuo cannoneggiamento di licenziamenti, diminuzione dei salari, demansionamenti, tagli. Persino i figli viziati della medio borghesia degli anni del boom si accontentano ormai di qualche contratto l’anno, vagando fra gli open space dei call center, i capannoni di amianto dei discount, le cucine e le celle frigorifere dei fast-food.
L’evoluzione informatica e dei software gestionali, presentata come fonte di emancipazione sociale ha espulso dalla produzione milioni di lavoratori, degradato le competenze di quelli rimasti, e trasformato il lavoro in una routine più ripetitiva della vecchia catena di montaggio.
Nella creazione della ricchezza sociale, la finanza -lo ricorda fra gli altri Gallino-, ha quasi sostituito la produzione reale.[1]
In Italia la disoccupazione procede ad un ritmo di 200mila posti di lavoro persi per anno. Il 46% dei giovani italiani è ufficialmente senza un’occupazione. Negli ultimi sette anni, Il 16% delle piccole e medie imprese è fallito, gettando sul mercato del lavoro, già saturo, 405mila disoccupati. Un fuoco di artiglieria.
Ma si tratta davvero di una «contro-rivoluzione dall’alto» ingaggiata dalle élites contro le classi subalterne? Il tracollo economico attuale è semplicemente «una delle espressioni più crude […] della lotta di classe condotta dai vincitori contro i perdenti»[ii]? Le cause della crisi vanno cercate esclusivamente nelle manovre di una classe politica asservita alle lobbies finanziarie, già responsabile della deregulation degli anni ottanta, della globalizzazione dei mercati finanziari e dell’indebitamento degli Stati?
Davvero i capitalisti hanno semplicemente spostato i loro profitti nei paesi in via di sviluppo, dove milioni di operai sfruttati sostituiscono e sovracompensano la forza-lavoro persa in occidente?
Nello smarrimento teorico c’è chi si è già consegnato ad una rinnovata teoria del complotto che va dai deliri del «signoraggio» e delle «scie chimiche», fino ad un velato antisemitismo che sostituisce la figura del broker a quella del vecchio usuraio ebreo. Oscure sette di economisti, top manager e capitani d’industria, riuniti in club esclusivi, starebbero elaborando a tavolino modelli economici e strumenti finanziari in grado di «creare» una realtà del mercato a loro immagine e somiglianza.
Ma c’è anche chi è ancora alla ricerca dell’ennesimo «soggetto rivoluzionario», questa volta tra le masse degli sfruttati indiani, cinesi, brasiliani; o fra i partecipanti a qualche riot metropolitano, come quello dei Forconi italiani.
Quasi nessuno sembra essere interessato alle dinamiche profonde del capitalismo, a quelle contraddizioni della «forma valore» che hanno costretto la nostra società ad essere perpetuamente in crisi.
La lunga vita del capitalismo, se non la sua immortalità, è data per scontata. Crisi o non crisi.
«Come recita una vecchia battuta –ha scritto recentemente Carlo Formenti-, ironizzando sulla fretta di dare per spacciato il modo di produzione capitalistico: ”Il capitalismo ha i secoli contati”»[iii].
Eppure, già nel lontano luglio del 1867, Marx si era premurato di manifestare a quei pochi lettori che si trovarono una delle mille copie de «Il Capitale» fra le mani, il suo entusiasmo per aver slacciato il nodo più stretto che le società umane avevano avvinghiato fino ad allora intorno a chiunque avesse tentato di studiarle. «La forma valore –scriveva Marx-, di cui la forma denaro è la figura perfetta, è […] estremamente semplice. Eppure, da oltre due millenni la mente umana cerca invano di scandagliarla»[iv].
Secondo Trenkle, Lohoff e la Critica del valore dentro quel nodo (prontamente riallacciato dalle teorie economiche successive e dallo stesso marxismo), è ancora nascosta la chiave per comprendere perché la attuale tendenza a concentrare l’attacco soltanto «sul capitale finanziario significa di fatto rovesciare la connessione di causa-effetto dei rapporti della logica capitalista»[v].
L’euforia per il compiuto scandaglio di Marx -di cui la teoria della crisi era il frutto più indigesto-, fu insomma condivisa quasi soltanto dal suo autore.
L’impresa, d’altra parte, non era delle più facili. Il problema sembrava aver tormentato gli studiosi fin dall’antichità, già il vecchio Aristotele, oltre duemila anni prima, si era accorto, meritandosi per questo più di una citazione ne «Il Capitale», che lo scambio fra beni sul mercato, e fra beni e denaro, apparentemente scontato, nascondeva in realtà terribili rompicapo.
Ma alla fine dell’ottocento, inoltre, gli enigmi che le categorie sussurravano all’orecchio di un critico dell’economia prussiano, non erano già più quelli che si erano presentati al cervello degli antichi greci. La società, dopo un sanguinario processo storico, si era trasformata in una totalità organica capace di sottomettere tutti gli aspetti dell’articolazione collettiva -dalla stretta sopravvivenza al più frivolo degli svaghi-, alle sue leggi di granito.
Le merci non erano più quei beni utili costruiti dall’uomo per la propria soddisfazione, e nemmeno quei prodotti che, in occasione di eccedenza, potevano essere scambiati con oggetti elaborati da altre comunità, in base al bisogno. Le merci, nel 1867 come oggi, erano pensate già in origine per lo scambio su larga scala, già fabbricate soltanto per aumentare di continuo il capitale accumulato nei secoli precedenti, in quasi totale indifferenza per la loro utilità o bellezza.
Il denaro non occupava più quel ruolo episodico e convenzionale che aveva avuto nel mondo di Aristotele, ma era diventato il rappresentante del valore, l’unica ricchezza valida della società produttrice di merci, l’unico suo fine.
Marx aveva intuito che, per risolvere il «mistero» della società mercantile, sarebbe stato necessario abbandonare quella sagoma in cui la «forma valore» si era presentata indistintamente a tutte le epoche della storia, attraverso la quale, ormai, non si comprendeva più «nessun livello produttivo storico reale»[vi]; ed esercitarsi nello studio esclusivo di quelle forme che le categorie avevano assunto nel nuovo contesto capitalista.
Merce, denaro e lavoro erano organi, tessuti, cellule di quell’automa in cui si era trasformata la società: strutture celate così perfettamente sotto la pelle che soltanto l’occhio di un anatomista esperto avrebbe potuto disegnarne i contorni.
Ma con quale metodo indagarle?
Gli strumenti dell’indagine non potevano essere quelli usati dai biologi, o dai fisici nelle loro «sensate esperienze». «Nell’analisi delle forme economiche –notava con la solita ironia, Marx-, non servono né il microscopio, né i reagenti chimici: la forza dell’astrazione deve sostituire l’uno e gli altri»[vii].
E furono proprio l’astrazione, la dialettica, il concetto di contraddizione e di feticismo della merce -ovvero alcuni degli strumenti utilizzati da Marx per sostituire il «microscopio»-, a generare una tale alluvione di fraintendimenti, di rimozioni e di rifiuti da parte degli studiosi e militanti (tradizionalmente meno dotati di ironia), che i detriti di quella enorme piena nascondono ancora oggi le vere cause della crisi, la struttura del capitalismo, e la sua natura storica.
Nuotando in questo fiume, ma contro corrente, la Critica del valore, nella versione che ne ha dato il Krisis Gruppe -di cui Ernst Lohoff è stato nel 1986 fra i fondatori[viii]-, ha costruito negli ultimi trent’anni il suo sconcertante edificio critico proprio su quel «nucleo dimenticato della teoria marxiana»[ix], nucleo che Robert Kurz e i collaboratori della rivista Krisis[x] hanno ribattezzato polemicamente esoterico, in contrapposizione ad un contenuto essoterico dell’opera di Marx, patrimonio del defunto e sterile marxismo tradizionale. Robert Kurz, Roswitha Scholz, Peter Klein, Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Anselm Jappe, Claus Peter Ortlieb ed altri compagni di viaggio meno conosciuti in Italia, «fuori delle università e delle cappelle grandi e piccole della sinistra»[xi], sono riusciti a riformulare una teoria del feticismo e della crisi così radicale da risultare indigesta anche per gli stomaci più estremi.
Il capitalismo, sotto questa lente scovata in uno dei cassetti a doppio fondo di Marx, non sarebbe altro che una versione particolarmente aggressiva e cieca di feticismo. Una società primitiva, dove a fare da protagonista non sono gli uomini con le loro scelte consapevoli; non sono i movimenti sociali, le lobbies, i partiti, gli intellettuali, gli operai o gli imprenditori; ma un’astrazione inanimata, un feticcio: il valore, e la sua incessante, cieca dinamica di accrescimento: «Il feticismo è una società dove gli uomini fanno la loro storia, ma senza saperlo»[xii].
Sarà forse poco gradevole, per il fondatore di una nuova start up aziendale, convenire con una teoria che paragona l’esaltante autobiografia collettiva contemporanea, testimoniata dai milioni di foto ritoccate e salvate sulle memorie degli ultimi modelli di smartphone; con quella di un cacciatore-raccoglitore del Burkina Faso di cinquemila anni fa.
Eppure proprio la società degli «incubatori d’impresa» attribuisce inconsciamente i propri poteri sociali ad entità inanimate, a feticci, molto più di quanto non facessero le popolazioni animiste arcaiche.
Ogni società primitiva ha i suoi tabù inviolabili. La società del feticcio della merce rimuove patologicamente «l’idea che il capitale possa avere un limite intrinseco»[xiii].
Gli incubi agitati dalla Critica del valore, indicando il «ritorno del rimosso» sociale che si manifesta sotto forma di crisi, parlando di «crollo catastrofico», di contraddizioni interne, ridimensionando il ruolo dei «soggetti rivoluzionari» immanenti al capitalismo; turbano il sonno degli economisti, e i sogni ad occhi aperti degli urlatori dei movimenti.
A partire dagli anni settanta, secondo la critica del valore, gli spazi per nuove accumulazioni di capitale si sono esauriti. A causa della terza rivoluzione industriale microelettronica, la società mercantile è ad un passo dall’ultima delle sue crisi.
Nessuna espansione del settore terziario, nessun miracoloso nuovo modello di accumulazione, nessuna simulata crescita dei paesi emergenti, nessun ritorno alla sovranità monetaria nazionale riusciranno a curare il malato.
Il brusco risveglio potrebbe avvenire in mezzo ad un cumulo di macerie.
Converrà allora scuotersi in fretta, risalire ancora una volta sulle spalle di Marx e riferirsi proprio al contenuto di quell’entusiasmo manifestato nell’introduzione a «Il Capitale». Perché Marx, «specialmente dal punto di vista del metodo, rimane ineludibile»[xiv].
II. La teoria del valore-lavoro
«Un volume di Properzio e 8 once di tabacco da fiuto possono essere un medesimo valore di scambio, nonostante la disparità dei valori d’uso di tabacco ed elegia»
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica[xv]
Ma quali enigmi poteva mai nascondere un oggetto così banale come la merce? Quali cavilli potevano aver ossessionato addirittura Aristotele?
Ebbene -si era detto Aristotele-, le merci sono cose assolutamente comuni: un paio di scarpe, o un letto, tutte utili e diverse fra loro. Ma come è possibile che, appena arrivate sul mercato, le merci “letto”, in una certa quantità, diventino di colpo equivalenti e scambiabili con una merce completamente differente come, per esempio, una casa greca in legno e mattoni? Quale misteriosa sostanza in comune può rendere corrispondenti cinque letti e una casa, tanto che li si scambia fra loro, o in cambio di denaro, senza troppi patemi?
«Tutto ciò di cui si dà scambio -scriveva perplesso Aristotele-, deve essere in qualche modo commensurabile […] in verità è impossibile che cose talmente diverse divengano commensurabili»[xvi].
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele ipotizzò che soltanto una convenzione legale, imposta per legge: la «moneta», potesse operare una tale assurda equiparazione. La risposta, però, restava insufficiente.
Marx, mettendo a frutto la sua «forza di astrazione» di uomo dell’ottocento, aveva compreso che Aristotele non sarebbe mai riuscito a trovare risposta alle sue domande, proprio a causa del «limite storico della società in cui viveva»[xvii], una società dove le merci erano solo un episodio marginale della riproduzione. Ma le cose nel capitalismo, dice Marx, stanno diversamente: una sostanza in comune fra le merci esiste, ed è il lavoro. «Se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, non resta loro che una proprietà: quella di essere prodotti del lavoro»[xviii].
La società mercantile, secondo Marx, rende equivalenti le merci astraendo da ogni loro qualità concreta e riducendole a mere quantità di lavoro speso nella loro produzione, misurata in tempo. Una merce qualsiasi, sul mercato, verrà scambiata con un’altra la cui produzione sia costata lo stesso tempo di lavoro. Cinque letti contro una casa di legno. In termini economici si dice, in questo caso, che le due merci hanno lo stesso valore. Il valore, cioè il tempo di lavoro speso nella produzione è la «terza cosa» in comune che equipara le merci; le quali, in quanto valori sono tutte qualitativamente uguali e solo quantitativamente diverse.
Tuttavia, sebbene «lavoro» e «tempo» siano parole per noi domestiche, nel capitalismo nascondono contenuti molto distanti da quelli familiari.
Il lavoro che si manifesta nel valore e nel valore d’uso delle merci, non è il lavoro umano nel suo senso più schietto e innocuo, non è l’attività degli schiavi greci di Atene, né quella immaginata da Defoe per il suo Robinson. È un tipo speciale di lavoro, di natura sociale, una funzione che è «possibile unicamente in una società in cui la forma merce è la forma generale del prodotto del lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci è il rapporto sociale dominante»[xix].
È il lavoro capitalista, una categoria schizofrenica, duplice. Una sfera separata dalle altre attività della vita umana, che segue soltanto le proprie logiche.
Come la merce, che ha un valore d’uso e un valore, un lato concreto che distingue un prodotto da un altro, ed uno astratto che li equipara in quanto semplici quantità di lavoro; anche il lavoro ha due aspetti. Il lato astratto, che concorre alla determinazione del valore di una merce, è pura attività umana senza specificazioni, da riversare in qualsiasi ambito della produzione. Non si tratta di una definizione valida soltanto fra le pagine di un dizionario filosofico: il lavoro entra realmente nella produzione anche in quanto privo di qualità.
Risalendo, per esempio, dalle categorie di base del capitalismo, alle manifestazioni più superficiali e riconoscibili sul mercato; si può notare che la forza-lavoro -un termine con cui Marx indica la capacità di lavorare che i lavoratori vendono come merce ai capitalisti in cambio di un salario-, è essa stessa una capacità di lavoro qualsiasi, posseduta da lavoratori qualsiasi, addestrabile a qualsiasi utilizzo, purché in grado di entrare nel processo a richiesta. Non importa in quale branca della produzione verrà poi concretamente messa in opera dal capitalista, che sia acciaieria, conceria o telecomunicazioni, importa che sia forza-lavoro, lavoro qualsiasi in potenza, pronto a riversarsi dovunque, manifestando il suo lato astratto, nel valore.
I lati concreti del lavoro e della merce, da parte loro, sono certamente ricchi di quelle determinazioni che distinguono da sempre un’attività da un’altra, una cosa dall’altra: distinguono il lavoro di un team leader, da quello di un manovale sterratore; distinguono un libro da 8 once di tabacco da fiuto. Eppure sono anch’essi, come spiega Trenkle, inseriti in un sistema dove persino l’ideazione dei beni apparentemente più utili, non segue più gli imperativi dell’utilità; ma quelli della valorizzazione. «Tutti i processi di produzione […] sono fin dall’inizio orientati alla valorizzazione del capitale […] i prodotti […] non possono che avere un solo fine: rappresentare il tempo di lavoro astratto trascorso nella loro produzione, sotto forma di valore»[xx].
La categoria duplice del lavoro, dunque, è una sfera astratta in sé, dedita soltanto alla sua riproduzione e alla sua logica. Si potrà sempre convertire un team leader in un manovale e un tipografo in un operaio dell’industria dei tabacchi, quale che sia la loro storia personale: le leggi del valore li equiparano in quanto portatori di forza-lavoro. Il lavoro concreto, quindi, «non rappresenta che il paradosso di essere il lato concreto di un’astrazione»[xxi].
Ecco perché Aristotele, che viveva in una società servile, basata sulla disuguaglianza concreta degli uomini e dei loro lavori, non avrebbe mai potuto svelare il mistero della forma valore.
Le assurdità non finiscono qui: non soltanto il lavoro è una categoria capitalista, ma anche il tempo con cui lo si misura è un tempo specifico della sola società mercantile.
Non si tratta infatti, nella determinazione del valore di una merce, di misurare semplicemente in ore e minuti il tempo effettivo speso per produrla, e di convertire poi la cifra in valore di mercato e in prezzo. Operazione che, fa notare Trenkle, sarebbe stata comunque estranea alla mentalità di un «contadino medievale». Il tempo bruto, speso per produrre davvero una merce singola subisce ancora diverse mediazioni prima di apparire sul mercato come “prezzo”, la più importante delle quali è la misurazione sul letto di Procuste del tempo sociale medio.
Nel capitalismo sviluppato, tramite il tempo sociale medio, è la concorrenza a decidere quanto tempo debba occorrere per produrre una merce di una determinata branca. La decisione avviene riferendosi ciecamente al livello medio di sviluppo raggiunto, per un periodo abbastanza lungo e stabile di tempo, dalla produttività delle regioni più sviluppate del mercato mondiale, dall’efficienza tecnologica dei macchinari impiegati, dall’abilità media dei lavoratori e dalle condizioni strutturali. Una merce deve essere prodotta nel tempo indicato dallo standard sociale. «la media […] è definita a priori […] e regna spietatamente. Un prodotto non rappresenta allora che la quantità di lavoro astratto che può dimostrare di fronte al tribunale della misura della produttività sociale»[xxii]. Tutte le aziende che producono una merce sprecando più tempo di quanto stabilito socialmente, perché meno sviluppate, situate in regioni senza infrastrutture efficienti o dotate di forza-lavoro poco addestrata; sono comunque costrette a vendere la merce al valore di mercato medio vigente. Cioè ad un prezzo inferiore al valore che la loro merce conterrebbe se fosse conteggiato soltanto il tempo effettivo di lavoro speso nella sua produzione.
Questo processo, sempre in movimento a causa della concorrenza fra capitalisti che tendono ad aumentare di continuo il livello della produttività -e, quindi, a lungo termine, a modificare lo standard-, avviene alle spalle dei produttori, efficienti o inefficienti che siano, «ai quali sembra […] dato dalla tradizione»[xxiii], sembra cioè un fatto quasi naturale.
Ma non è naturale. La merce, il lavoro astratto e quello concreto, la forza-lavoro come merce, il tempo sociale medio, il valore non esistono se non nella vita sociale degli uomini che si muovono sotto il capitalismo. È del tutto inutile chiedersi se, dentro una certa merce, ci sia davvero una certa quantità di lavoro astratto misurata in tempo medio; o in quale merce sia finita quella quota di valore che servirà a pagare il salario di chi l’ha costruita o pensata.
Tuttavia, anche se nel valore «non entra neppure un atomo di materia naturale»[xxiv], nel gioco sociale del capitalismo, le sue leggi contraddittorie valgono come quelle invalicabili della natura. Il lavoro è l’unica forma in cui le attività umane possono essere distribuite in società complesse come la nostra; chi non può mettere sul mercato una quantità di lavoro, suo o altrui, non sopravvive; il denaro è il solo mezzo per effettuare gli scambi sul mercato: sembra che sia sempre stato così e che sarà sempre così.
Certamente la schizofrenia astratto-concreto celata all’interno delle categorie, la coincidenza di determinazioni opposte in un solo oggetto, sarebbe inaccettabile persino per un capitalista se si presentasse nella sua aperta natura allucinatoria. Un oggetto non può avere, insieme, le due qualità contraddittorie di astratto e concreto; proprio come un uomo non può pretendere di essere, allo stesso tempo, Mario Rossi e Napoleone.
Tuttavia la contraddizione tra merci concrete qualitativamente diverse fra loro e merci come valori qualitativamente identiche fra loro, viene resa accettabile con una separazione reale, sul mercato, dei due lati della merce in due oggetti tangibili e diversi: «questa contraddizione tra valore e valore d’uso, conduce […] alla separazione del valore delle merci dalla merce stessa, allo sdoppiamento della merce in merce e denaro»[xxv].
È stata questa scissione-dissimulazione ad aver reso così difficoltose le analisi della forma valore, consentendo così alla contraddizione di farsi «pratica reale», e di raggiungere le strade inquinate delle città moderne.
III. Che cos’è il denaro?
La logica delle categorie del capitalismo spinge il valore a cercare una strada per trasmutarsi in «cosa» autonoma e spostare la contraddizione fuori dal corpo della merce singola. Il valore deve diventare denaro. Marx studia i diversi gradi logici di scambio per scovare il segreto di questa mutazione.
Nella forma più elementare di scambio, che Marx chiama forma valore semplice, il denaro non è ancora logicamente apparso. Due merci si fronteggiano sulla scena «recitan(do) due parti differenti»[xxvi] e devono scambiarsi soltanto in base al fatto che in entrambe si manifesta la medesima quantità di lavoro astratto.
La prima merce rappresenta il suo valore nella seconda: X merce A = Y merce B; 20 braccia di tela valgono un abito. Marx dice, elaborando la sua terminologia metodologica, che nella prima merce dell’equazione, il valore è rappresentato in forma relativa alla seconda; nella seconda in forma equivalente alla prima.
Nel forma valore semplice una merce concreta, l’equivalente, diventa pura manifestazione del valore dell’altra: diventa, dice Marx, come una «gelatina di lavoro umano» astratto. L’abito, allora, nel nostro esempio, non è più l’abito reale che conosciamo: caldo, elegante o logoro; ma soltanto una determinata quantità di lavoro astratto, rappresentato in forma «abito», immediatamente scambiabile con una certa quantità di tela.
Così, in una metamorfosi incomprensibile al senso comune, «la forma naturale della merce B, diventa forma valore della merce A […] il valore d’uso diventa forma fenomenica del suo contrario, il valore»[xxvii]. La stessa metamorfosi, ovviamente, si manifesta anche nel lavoro che ha creato la merce in forma equivalente: il lavoro concreto di sartoria, che necessita concrete specializzazioni, diventa ora semplice manifestazione di spesa di tempo di lavoro astratto.
Nella forma valore semplice, la contraddizione si è già fatta casalinga, le due merci rappresentano adesso rispettivamente i due lati che erano prima compressi in una merce singola: «l’opposizione interna fra valore d’uso e valore […] viene […] rappresentata da un’opposizione esterna»[xxviii].
La merce in forma relativa si presenta ora come un oggetto naturale, mansueto come può esserlo un pezzo di tela qualsiasi, rappresentante onesto del suo valore d’uso. L’equivalente «abito», invece, parla soltanto più la lingua del valore, come se essere valore fosse da sempre una sua qualità, proprio come prima lo era quella di riparare gli uomini dal freddo.
Certamente questa logica è assurda e può avere senso soltanto all’interno del rapporto di valore; ma, «poiché le proprietà di una cosa non nascono dal suo rapporto con altre […] anche l’abito sembra possedere per natura la sua forma equivalente»[xxix]. Le categorie, che avevano un carattere sociale, si presentano ora in società come fatti naturali.
La forma valore semplice, tuttavia, è costretta ad evolversi in forme più complesse a causa della sua insufficienza. Le venti, celebri, braccia di tela non possono scambiarsi nella realtà del mercato soltanto con una data quantità di abito, ma devono potersi scambiare anche con tutto il variegato mondo mercantile. La merce relativa «tela», trova sul mercato infiniti equivalenti: X quantità di merce A, Y di merce B, Z di merce C; chili di grano, etti di caffè, di ferro ecc.
In questa seconda forma più elaborata ma ancora incompleta di scambio, che Marx chiama Forma valore totale, lo scambio esce dal rapporto duale, si allarga a tutte le merci, ma diventa più complicato: infatti, per sapere quanto vale la tela, è ora necessario elaborare infinite equazioni, essendoci infiniti equivalenti. Si è costretti a valutare caso per caso: la tela ora vale X merce A, ora vale Y merce B, e così all’infinito. A ben guardare, però, per semplificare lo scambio, poiché anche tutte le merci possono scambiarsi indifferentemente con tela, sarà sufficiente rovesciare le equazioni, mettendo la tela al posto di equivalente e le altre merci in posizione di forma relativa per ottenere una terza, più semplice, e definitiva forma logica di scambio che Marx nomina forma valore generale.
Tutti i proprietari, nella forma valore generale, scambiano le merci solo con parti aliquote di tela, la quale ormai rappresenta gelatina di lavoro astratto immediatamente scambiabile, e serve solo più da mediazione fra le altre merci, rappresentandone il valore. La tela, ora, è l’equivalente generale di tutte le merci, l’unica merce esclusa dalla forma relativa, l’unica merce con la quale, sul mercato, si potranno acquistare grano, caffè, ferro e qualsiasi altra cosa. Questa merce è il denaro. Il «posto privilegiato» di equivalente generale, durante un processo secolare, «se lo è storicamente conquistato una determinata merce: l’oro»[xxx].
Ed è l’oro in quanto denaro a donare al valore un aspetto naturale come il metallo di cui è costituito. Il denaro è l’«astrazione reale», è l’«idea» dei filosofi che si è incarnata, è «valore di scambio separato dalle merci stesse e oggettivato»[xxxi], non certo quella convenzione sociale innocua in cui credeva Aristotele.
Con questo ultimo passaggio logico, «l’interna contraddizione della merce[…] trova quindi la sua soluzione esterna […] nello sdoppiamento della merce in merce e denaro»[xxxii].
Tutte le dottrine che prevedono l’abolizione del denaro senza prevedere anche l’abolizione di tutto il capitalismo, lavoro e valore compresi, quindi, sono pure utopie
IV. Chi genera il valore?
Ma le contraddizioni nel capitalismo sono risolte solo al prezzo di essere inasprite e «sollevate ad un nuovo livello»[xxxiii]. L’equivalente generale, resosi autonomo, si trasforma ben presto «da mezzo a scopo»[xxxiv].
L’unico fine sociale diventa scambiare meno denaro con più denaro, trasformare un euro in due e due in tre, in un processo infinito di valorizzazione del valore. Il denaro deve diventare capitale.
Ma il valore, essendo lavoro astratto, può riprodurre se stesso soltanto nel processo di produzione, tramite la forza-lavoro: «il semplice movimento dei valori di scambio[…] nella pura circolazione non può mai realizzare un capitale»[xxxv].
Sorvolando, in questa sede, sul capitale accumulato prima e durante la genesi storica del capitalismo, e già circolante in società (accumulazione che ha una storia carica di sangue, costrizioni, guerre e violenza), è facile capire perché il valore nuovo venga creato esclusivamente dall’impiego di forza-lavoro umana.
La forza-lavoro, da un certo punto di vista, è una merce come tutte le altre: il suo valore, cioè, è determinato dal tempo di lavoro astratto necessario alla sua produzione; o meglio alla sua riproduzione.
Spiega Marx: «il valore della forza lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari alla conservazione del suo possessore», cioè il valore del cibo, delle necessità, degli svaghi del lavoratore medio e della sua famiglia. Queste necessità variano dal grado di civiltà, dal luogo e dal tempo storico; ma «per un dato paese […] in un dato periodo il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari è […] prestabilito»[xxxvi].
D’altra parte però, la forza-lavoro non è una merce qualsiasi. Ha un valore d’uso unico: non soltanto conserva, ma crea valore nuovo quando viene consumata. Le merci assorbono una quota di valore mediante la misurazione in tempo sociale medio della forza-lavoro consumata nella loro produzione.
La forza-lavoro però, questo è il punto centrale, non è lavoro già compiuto, ma è una capacità non ancora quantitativamente definita di lavorare. Nello scambio forza-lavoro contro salario il capitalista paga un prezzo definito socialmente a priori, ma ottiene una capacità indefinita di lavorare. Su questa differenza tra valore della forza-lavoro e valore che la forza-lavoro può creare lavorando nella produzione, si gioca la famosa estorsione di plusvalore: «il plusvalore esiste […] soltanto quando il primo è minore del secondo»[xxxvii]. Il capitalista cerca quindi di dare meno valore in cambio di più valore; il lavoratore, invece, è costretto a produrre più valore di quanto vale.
I mezzi di produzione, i macchinari, al contrario, non possiedono il valore d’uso di creare valore. Rilasciano semplicemente, nel processo produttivo, il valore che hanno. Un braccio robotizzato dell’industria automobilistica, per esempio, viene acquistato ad un prezzo che si aggira intorno al suo valore[xxxviii]; ma ha una durata temporale, una capacità di lavorare e un’obsolescenza definite. L’imprenditore sa che, in quel periodo, il macchinario produrrà una quota definita di merci e soltanto quella.
Per determinare il valore delle sue merci, allora, l’imprenditore sommerà, oltre al valore della materia prima e al valore dell’energia utilizzate; anche il valore della quota di macchinario usurata nella produzione. Ma, in questo modo, ipotizzando che non vi sia consumo di forza-lavoro nella produzione da far lavorare più di quanto vale, l’imprenditore riotterrebbe alla fine della vita del macchinario, lo stesso capitale investito in partenza, il macchinario sarebbe diventato inservibile, rotto o obsoleto, la produzione interrotta e lo stesso concetto di «investimento» caduto nel nulla. «I mezzi di produzione –scrive Marx- non possono mai aggiungere al prodotto più valore di quanto ne posseggono […] un mezzo di produzione, se costa 150 sterline, cioè, diciamo, 500 giornate lavorative, non aggiungerà al prodotto […] mai più di 150 sterline»[xxxix].
Il processo di creazione del plusvalore, basato sullo scambio tra più e meno lavoro, poté compiersi storicamente dapprima aumentando quanto più possibile le ore di lavoro effettuate dall’operaio. L’operaio veniva semplicemente costretto a lavorare più ore di quante ne servissero per reintegrare il suo salario. Questo primo, rozzo stratagemma incontrò ben presto i suoi limiti. La giornata solare, le forze e la pazienza dei lavoratori non erano infinite come le esigenze del valore imponevano. Le rivendicazioni operaie e le lotte sindacali costrinsero ben presto i capitalisti, burattini del valore, a limitare la giornata lavorativa.
Non fu possibile, però, compensare le perdite riducendo il salario al di sotto del suo valore, perché la diminuzione avrebbe reso difettosa la riproduzione della forza lavoro. I capitalisti, a questo punto, furono costretti a seguire una strada obbligata: aumentare la produttività del lavoro (per diminuire il tempo di lavoro astratto impiegato), in quei «rami d’industria, i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro»[xl].
Da quel momento fu necessario produrre merci sempre più rapidamente, con tecnologie continuamente più efficienti; di modo che la quota di tempo dedicata dal lavoratore a ripagare il suo valore diminuisse progressivamente.
Ma il capitalismo innescò, proprio mentre tentava di salvarsi, la dinamica del suo stesso esaurimento: le tecnologie cominciarono a sostituirsi all’unica merce -la forza-lavoro-, in grado di creare la sostanza del valore sulla quale la società è basata.
A causa delle crisi generate dai continui aumenti di produttività e dalle contraddizioni mercantili, «lavoro e denaro» furono allora costretti a «separarsi […], cessando così di coincidere»[xli]
Il denaro, sgravatosi della zavorra della sua sostanza di valore, iniziò a nutrire l’illusione di potersi accrescere senza la mediazione del processo di produzione.
V. Denaro senza valore
In un saggio del 1995, «L’apoteosi del denaro»[xlii], Robert Kurz spiega nei dettagli il meccanismo della desostanzializzazione del denaro.
Non tutti i capitalisti reinvestono il capitale accumulato in un nuovo processo produttivo; alcuni lo lasciano da parte, «come l’osso che un cane seppellisce per mangiarselo più tardi»[xliii]
Questo capitale rientra in circolo grazie alle banche dove è custodito, che lo prestano alle aziende con capitale monetario scarso, incapaci di investire con le loro risorse. Il denaro torna ad essere, paradossalmente, una merce come le altre, torna a ricoprire il ruolo di forma relativa quotata sui mercati, il cui prezzo è l’interesse. È il fenomeno del credito. Il circolo D-M-D’ si riduce a D-D’, dando l’impressione che il denaro possa accrescersi da solo.
L’incantesimo può funzionare, a livello generale, finché i capitalisti riescono a ripagare il debito con denaro reale, portatore di valore, creato investendo il prestito nella produzione di merci. Quando invece il denaro prestato non viene più reimpiegato nella produzione, comincia a staccarsi dalla sua sostanza (anche se continua ad essere trattato come denaro “vero”), diventando pura forma senza contenuto.
Kurz elenca i casi in cui si verifica questa mancata valorizzazione: dalla bancarotta del debitore che rende i crediti inesigibili, al consumo del credito per finalità non produttive di capitale, come il lusso o il prestigio; fino al caso estremo, ormai già ampiamente verificatosi, in cui i debiti delle aziende inizino ad essere ripagati con altri crediti.
Un grado di scollamento ancora più alto è raggiunto quando il denaro prestato viene utilizzato direttamente per nuove speculazioni con le quali le aziende tentano di compensare la mancata valorizzazione del settore produttivo.
Abbiamo visto come le cause di questo meccanismo che spinse il capitale a diventare dipendente dal credito siano da ricercarsi nella contraddizione tra la continua rivoluzione del capitale fisso (macchinari e mezzi di produzione) finalizzata ad aumentare la produttività del lavoro e i profitti; e l’espulsione della forza-lavoro dovuta all’applicazione della tecnologia al processo produttivo .
Questa dinamica venne accelerata ulteriormente nel corso del novecento dall’aumento del “lavoro improduttivo”. L’ingigantirsi del settore terziario, visto da molti come un rimedio alla crescente disoccupazione nei settori produttivi, non è altro che un sintomo particolarmente grave di questa dinamica.
Un lavoro si può definire “improduttivo” in senso assoluto quando non produce merci, cioè quando appare a bilancio come “costo”, come spesa inefficiente.
Nel caso di un’impresa singola del settore produttivo, cioè a livello di un capitale singolo, è facile comprendere quali siano i settori improduttivi in senso assoluto: si tratta delle «spese generali […] come la gestione del personale, la contabilità, la pulizia, ecc.»[xliv], spese necessarie, ma che non generano profitti.
Queste attività improduttive sembrerebbero trasformarsi, con la rivoluzione terziaria, in lavoro apparentemente produttivo. Il lavoro impiegato nelle “spese generali”, infatti, viene sempre più spesso affidato a ditte esterne specializzate in grado di offrire, a pagamento (e facendo quindi profitto), lo stesso servizio. L’aumento del lavoro improduttivo, dunque, sembrerebbe sovracompensato da un parallelo aumento delle ditte specializzate in servizi.
Ma «le cose -scrive Kurz-, stanno diversamente a livello del capitale complessivo», dove «le “spese generali” improduttive […] sono […] sempre una sottrazione dal plusvalore complessivo»[xlv]
Secondo Kurz, il vero criterio per distinguere il lavoro produttivo da quello improduttivo, «può […] essere trovat(o) solo in termini di teoria della circolazione». Nella circolazione, può essere considerato «produttivo di capitale solo quel lavoro (che produce) prodotti […] il cui consumo viene immesso di nuovo nella riproduzione allargata», cosa che accade soltanto «quando i beni di consumo vengono consumati da lavoratori che sono a loro volta produttivi di capitale».[xlvi] Tutti prodotti consumati dai lavoratori improduttivi (ma anche dai disoccupati, dai pensionati e dagli inoccupati in genere), sono portatori di lavoro improduttivo e non contribuiscono alla valorizzazione. La maggior parte dei lavori svolti nel sistema terziario fa parte proprio di questa sfera, e cade di conseguenza fuori dalla riproduzione allargata.
L’aumento dei lavori improduttivi è causato dallo stesso sfrenato “progresso” tecnologico e sociale, con la conseguenza che: «i costi per le transazioni commerciali, monetari o giuridici, i costi secondari del consumo improduttivo e di lusso, i costi amministrativi, i costi per le infrastrutture e per i danni socio-ecologici, i costi per le condizioni generali e per la logistica della reale produzione di plusvalore crescono talmente che quest’ultima comincia a soffocare».[xlvii]
La società reagisce delegando gran parte delle “spese generali” agli Stati, i quali, a loro volta, cercando finanziamenti, finiscono per causare un ulteriore, gigantesco aumento del credito.
Tutto il denaro preso in prestito dagli Stati, inoltre, non viene reinvestito nella produzione, ma consumato improduttivamente in servizi infrastrutture e costi strutturali.
Accelerato da questa dinamica, il lavoro improduttivo inizia ad intaccare anche i settori tradizionalmente produttivi. Poiché l’enorme massa di lavoratori improduttivi consuma improduttivamente, per sopravvivere, una quota sempre maggiore di prodotti industriali; si crea un pericoloso paradosso: «i settori improduttivi devono venir alimentati […] dalla reale produzione di plusvalore, mentre […] la produzione industriale, come agente principale della creazione di plusvalore, è essa stessa, a causa del consumo crescente dei lavoratori improduttivi, sempre di meno […] una reale produzione di plusvalore»[xlviii]
A questa dinamica si aggiunge il peso del lavoro “improduttivo relativo”. Un lavoro può essere definito improduttivo in senso “relativo” quando la sua produttività cade al di sotto dello standard medio sociale. La media sociale globale non è una media fra la produttività delle diverse nazioni; ma un diktat che fa valere soltanto lo standard delle regioni più sviluppate. Le nazioni che entrarono per prime nel sistema produttore di merci imposero uno standard che non si abbassò quando i paesi in ritardo cominciarono ad affacciarsi sul mercato. Gli Stati più arretrati cercarono di reagire al diktat innalzando i dazi doganali e isolandosi dal mercato mondiale, ma a causa della globalizzazione dei mercati furono alla lunga costretti a ricorrere al credito per sovvenzionare le proprie industrie e renderle «artificialmente competitive»[xlix].
Furono questi interconnessi livelli di scollamento del denaro dalla sua sostanza, e non l’avidità degli speculatori, a trasformare la finanza nella vera anima della riproduzione sociale e a fare esplodere il debito degli Stati.
L’aumento del credito costrinse le banche a creare dal nulla nuova liquidità fittizia, senza attendersi nemmeno più che un giorno la produzione ne sostanziasse la vuota forma. Il fenomeno assunse una tale intensità, dopo la seconda guerra mondiale, da costringere diverse economie ad abbandonare la convertibilità del denaro in oro, ormai non più sostenibile. Il denaro, dopo l’abolizione del gold standard, avendo abbandonato «la reale sostanza-valore dei sistemi valutari»[l], non ha più alcun «fondamento oggettivo».
Questa immensa caduta della massa di valore globale causata dall’applicazione della scienza al processo produttivo, poté restare celata agli occhi degli analisti economici fino agli anni settanta grazie alla contemporanea espansione industriale fordista, centrata sull’automobile, sul petrolio e sui prodotti di massa derivati.
Il fordismo aumentò, finché fu possibile, la massa della forza-lavoro in opera a livello globale; proprio mentre ne diminuiva contraddittoriamente, con il progressivo aumento tecnologico, la necessità e la centralità nel processo produttivo.
Ma un nuovo sviluppo tecnologico avrebbe messo fine anche a questo meccanismo di compensazione: la microelettronica. «Di fronte a questo sviluppo, la teoria di Marx, secondo la quale l’utilizzo delle conoscenze scientifiche nella produzione comporterà la distruzione della società della merce, acquista un substrato empirico»[51].
Secondo Kurz, la rivoluzione microelettronica, negli anni ottanta, «fece sciogliere come neve al sole il nucleo occupazionale nell’industria […] (e) questa diminuzione non è affatto stata compensata […] dall’espansione fordista in Asia e altrove, come invece crede un certo discorso […] del tutto ingenuo sul terreno della teoria dell’accumulazione»[lii].
Si è spesso sentito dire, infatti, che l’espansione industriale dei paesi emergenti avrebbe addirittura sovracompensato l’estinzione della forza-lavoro occidentale, e dunque la massa di plusvalore creata a livello mondiale. Per Carlo Formenti, per esempio, non è possibile «ignorare alcune cifre clamorose […] duecento milioni di contadini cinesi […] avviati al lavoro salariato […] fa(nno) capire in quale misura la Cina abbia contribuito all’aumento dell’occupazione industriale su scala planetaria»[liii]. Ma Kurz ritiene che si tratti di un modo ingenuo di intendere il problema, legato alle cifre brute. Ciò che conta per la produzione di valore è lo standard di produttività dettato dalle regioni più avanzate; questo standard è a tutti gli effetti impossibile da raggiungere anche per i più competitivi fra i paesi emergenti.
I nuovi capitalisti, in Cina come altrove, cercano di colmare il divario imponendo «salari bassi, pessime condizioni di lavoro, distruzione sfrenata dell’ambiente[…] ma […] la reale creazione di valore da parte del capitale mondiale non viene affatto allargata. Misurato sullo standard globale di produttività, è ben possibile che 100 o 1000 operai a salario basso e con relativamente poco capitale fisso producano meno valore di un unico operaio dotato di alta tecnologia e di molto capitale fisso nello stesso settore»[liv].
Il personale arricchimento qualche capitalista cinese o indiano non comporta un aumento del valore messo in circolo a livello generale.
C’è, inoltre, un altro fattore da considerare. Gli Stati ricorrono a capitali monetari esteri presi in prestito facendo rientrare il denaro ottenuto nella propria economia nazionale sotto forma di domanda che si spreca poi in consumi non produttivi. L’indebitamento si spinge fino all’esito grottesco, tipico degli Usa, in cui le eccedenze delle importazioni non vengono più pagate con valuta interna, ma con capitale monetario straniero.
Questo fenomeno minò alle basi il boom asiatico delle “piccole tigri” negli anni novanta, che fu, «un’espansione fordista simulata attraverso il mega-circuito deficitario del Pacifico»[lv], e mina oggi «il boom in Cina, India e altri “mercati emergenti”», che «dipende totalmente dalla creazione di fondi speculativi e creditizi sui mercati finanziari transnazionali»[lvi]
Dagli anni ottanta il lavoro produttivo retrocede in tutti i settori. Le imprese, gli Stati, i Comuni, i partiti e le associazioni fanno quadrare i loro bilanci quasi soltanto più reggendosi sui prodotti della sovrastruttura finanziaria. Aziende dal bilancio prospero crollano a causa semplici speculazioni errate sui mercati finanziari. Il «denaro senza valore» si è gonfiato a tal punto che «se […] l’intera montagna dei valori commerciali fittizi si mettesse oggi in moto come reale domanda, ciò significherebbe l’iperinflazione immediata anche in Occidente […] (e) la rapida bancarotta di un numero sorprendentemente alto di imprese in apparenza “sanissime”[…]»[lvii].
La deregolamentazione dei mercati finanziari, allora, l’attacco al welfare del neoliberismo; le privatizzazioni sfrenate, le misure messe in atto per snellire lo Stato, furono e sono davvero una «reazione dall’alto» con le quali «le istituzioni capitalistiche non hanno mancato di reagire»[lviii] all’inarrestabile crollo di valorizzazione. Ma furono e sono, appunto, reazioni, non cause.
Queste acquisizioni sviluppate dalla Critica del valore negli anni novanta, sono state ulteriormente radicalizzate e attualizzate, negli ultimi decenni, dagli scritti di Norbert Trenkle e Ernst Lohoff, fra i quali quelli che qui presentiamo.
A parere dei due autori, nell’industria finanziaria recente si sarebbe verificata una nuova «assurdità […] inconcepibile nel mondo dei beni reali»[lix]. La logica temporale che aveva da sempre retto ogni ricchezza reale, secondo la quale un oggetto deve esistere prima di essere goduto o accumulato, si sarebbe rovesciata: «nei mercati finanziari si fa commercio del futuro»[lx].
Quando un titolo di proprietà, un’obbligazione societaria o un’azione vengono creati e venduti, «un valore che non esiste neppure […] si trasforma fin da subito in capitale fittizio»[lxi]. Il compratore del titolo, scambiando il suo capitale monetario «con una promessa di pagamento», trasforma un’aspettativa futura, che potrebbe anche non realizzarsi, nella «forma attuale del suo capitale»[lxii]. Questo nuovo capitale fittizio creato non è però una convenzione contabile, valida soltanto sulla «partita di bilancio del capitalista monetario»[lxiii], ma un capitale utilizzabile realmente sul mercato.
Nel periodo tra l’emissione di un titolo di proprietà e la sua estinzione, infatti, come in un incantesimo, il capitale si raddoppia: il capitale monetario venduto, da parte sua, viene impiegato sul mercato; ma anche la “promessa di pagamento”, sotto forma di titolo di proprietà, comincia a condurre «una vita autonoma» e «può essere utilizzat(a) anche per l’acquisto di beni di consumo o per investimenti»[lxiv]. L’apparente valorizzazione così generata, però, svanisce con l’estinzione del titolo, generando una rincorsa ancora più convulsa a nuovi surrogati dei «processi estinti di anticipazione di valore».
Questa innovazione teorica, applicata da Trenkle e Lohoff -soprattutto in “Discarica del capitale”-, all’analisi dell’indebitamento degli Stati dell’Euro e delle politiche di austerità rappresenta, forse, parte più originale e gravida di conseguenze dell’intero libro.
VI. Imposture intellettuali
«Non c’è ragione di cercare di imitare le scienze naturali quando si abbia a che fare con problemi umani complessi. È perfettamente legittimo rivolgersi all’intuizione o alla letteratura al fine di pervenire ad una qualche forma di comprensione, non scientifica, di quegli aspetti dell’esperienza umana che sfuggono, almeno per ora, ad una spiegazione più rigorosa»[lxv]
Ma quale statuto conoscitivo può effettivamente dimostrare la critica dell’economia politica?
Durante lo studio delle categorie, i concetti di “dialettica”, “feticismo”, “contraddizione”; le frequenti e fumose allusioni alla religione e alla metafisica sembrano trasferire il discorso teorico, che a prima vista pareva solidamente scientifico-economico, su un piano meno stabile e più incerto. La scienza, dedita alla pura osservazione e comprensione dei fatti attraverso un rigoroso apparato di pensiero (di cui la matematica è l’espressione formale); pare mescolarsi sempre più, fra le pagine di ispirazione marxiana, all’ideologia e alla filosofia (soprattutto di matrice idealistico-hegeliana).
Questa mescolanza è apparsa spesso quanto mai indebita agli studiosi.
Marx si esercitò per anni nel difficile tentativo di elaborare uno strumento teorico in grado, allo stesso tempo, di comprendere accuratamente i dati empirici della società e -mostrandone la totale assurdità -, di criticarli e superarli. Ma Marx fu anche il primo a sospettare che la sua impostazione potesse complicare la comprensione dei fatti: «Più in là -scrive nei Grundrisse- […], sarà necessario correggere la maniera idealistica di esporre, la quale dà l’impressione che si tratti di pure determinazioni concettuali e della dialettica di questi concetti»[lxvi]
Ciò che importa di una teoria sociale critica, come quella basata sulla teoria del valore-lavoro, è se questa sia vera e adeguata a spiegare la realtà; non se sia affascinante o profonda, come i filosofi postmoderni ci hanno abituato a pensare. Come ebbe modo di osservare Colletti: «privato della teoria del valore e del plusvalore, il Capitale crolla»[lxvii]; e con lui crolla anche tutto il versante teorico della Critica del valore.
Nei rapporti tra critica marxiana dell’economia politica e scienza, lo stesso marxismo tradizionale oscillò fin dall’inizio tra due atteggiamenti contrapposti.
Colletti ricorda come il materialismo dialettico di matrice russa, attribuendo alla stessa natura le “eterne” leggi dialettiche sviluppate dalla logica hegeliana, nutrisse aperta ostilità verso la scienza moderna, considerata volgare ed empirica[lxviii].
Al contrario dei russi, il marxismo tedesco della seconda internazionale scelse «la rappresentazione che Marx aveva dato della propria opera nella Prefazione e […] nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale»[lxix], una rappresentazione del «marxismo come scienza» equiparabile alla fisica o alla biologia, in grado di scoprire le leggi naturali della società produttrice di merci. Le due concezioni, però, non coglievano il senso dell’operazione marxiana, accettando entrambe, al di là delle affermazioni ideologiche di senso contrario, il capitalismo come un fatto “naturale” ed eterno.
Proprio il caso di Lucio Colletti diventa esemplare per comprendere il problema irrisolto della commistione fra dialettica e scienza. Radicalizzando la sua posizione antidialettica Colletti arriva, nel suo periodo più critico verso il marxismo, a ritenere che anche per Marx, come per il Diamat, esistessero delle contraddizioni reali anche in natura. Questo presunto peccato hegeliano avrebbe privato la critica dell’economia politica dello statuto scientifico, lasciandola «appes(a) […]a un atto di fede»[lxx]. E così, proprio il Colletti che aveva saldato, per primo, in «Ideologia e società»[lxxi], teoria del valore, teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione dialettica; considera ora questa saldatura niente più che sterile sincretismo metodologico, chiacchiera metafisica senza attinenze con la realtà[lxxii].
In effetti, «la critica marxiana -scrive Anselm Jappe-, utilizza […] in passaggi decisivi la logica dialettica hegeliana con il suo tertium datur e con la sua predicazione simultanea di qualità che si escludono l’un l’altra, pur riferite allo stesso oggetto»[lxxiii]. L’utilizzo di Hegel, comporta quindi la violazione del principio di identità e non contraddizione, il principio cardine dell’indagine scientifica. Non è mia intenzione entrare nel merito del dibattito sollevato dalle acquisizioni della meccanica quantistica, secondo le quali il comportamento di alcuni elettroni sembrerebbe violare, anche nella realtà fisica concreta, il principio di non contraddizione[lxxiv]. Resta il fatto che, per Colletti, «Il concetto di contraddizione costituisce il nucleo stesso delle obiezioni […] a Hegel»[lxxv]e, di conseguenza, anche a Marx.
Ma il primo Colletti era più vicino alla soluzione di quanto non lo fosse l’ultimo: «l’oggettività […] con cui la società si prospetta ai suoi membri, nelle condizioni capitalistiche -scriveva negli anni in cui stava maturando la sua svolta-, non è un’oggettività […] naturale […] è l’oggettivazione (reificazione o alienazione) dei rapporti sociali stessi che […] hanno assunto la forma di “cose” […] si tratta, è vero, di leggi oggettive che operano indipendentemente dalla coscienza e addirittura “alle spalle” degli uomini […] le leggi del mercato valgono […] come una “necessità naturale” […] ma non perché il mercato sia un fenomeno “naturale”»[lxxvi].
Il Capitalismo come oggetto di studio, infatti, non è equivalente al moto di un pianeta, a una radiazione, o a un “quanto” di energia. È un prodotto sociale. Sarebbe assurdo immaginare una scienza che criticasse l’elettrone, durante lo studio sperimentale, a causa delle sue contraddizioni (sempre che ne abbia). Ma non lo è altrettanto immaginare una teoria che, studiando fatti empirici ma storici, scopra e critichi delle contraddizioni esistenti in una determinata società. Le strutture sociali, derivando dal cervello e dalla storia degli uomini, possono contenere elementi contraddittori, esattamente come li conteneva l’idea che l’ostia fosse pane, ma anche carne divina allo stesso tempo.
Come racconta con insuperabile icasticità Swift nei «Viaggi di Gulliver», su queste contraddizioni sociali «le differenze di opinione sono costate milioni di vite umane: se per esempio la carne sia pane, o il pane la carne, se il succo di un certo frutto sia vino o sia sangue […] se sia meglio baciare un legno, o gettarlo sul fuoco»[lxxvii].
Molto più proficuamente, allora, seguendo Jappe, conviene notare come Marx scopra le categorie sì nella realtà empirica, ma in quella realtà sociale specifica e storicamente determinata di cui abbiamo parlato in questa postfazione: il capitalismo. In questo contesto, «se Marx privilegia l’esposizione concettuale della logica della merce […] non è per ragioni “metodologiche”[…] ma piuttosto perché uno dei tratti distintivi della società capitalista e feticista è di avere una natura “concettuale”»[lxxviii]. L’astrazione, il concetto, sotto il capitalismo si reificano; si manifestano sotto forma di denaro e iniziano autonomamente a dominare il mondo degli uomini. La procedura di Marx, dunque, lungi dal rappresentare un pallido «sincretismo metodologico», «riproduce piuttosto la vera struttura della società mercantile sviluppata»[lxxix]. Una struttura realmente contraddittoria. «Marx sottolinea come il capitalismo sia una società […] contraddittoria; ma a differenza di Hegel, non pretende affatto che tutta la realtà sia contraddittoria […] certi sviluppi di Marx hanno senza dubbio un carattere che può apparire “idealista” o “metafisico”. Ma si tratta di una conseguenza della natura dell’oggetto delle sue ricerche»[lxxx]. È dunque il capitalismo stesso, e non la teoria marxiana che lo descrive, ad essere metafisico, idealista.
La società mercantile, che ha celebrato più volte il suo trionfo sulla metafisica, non è che una «metafisica realizzata», simile ai peggiori sogni degli scolastici medievali[lxxxi]
Come in un incubo, il mondo si è fatto hegeliano. «Hegel costituisce […], agli occhi di Marx, la rappresentazione involontariamente corretta di una realtà falsa»[lxxxii], le categorie di Hegel, a prima vista mere speculazioni mistiche, acquistano un senso tetramente reale: gli uomini si scoprono manovrati da chimere che si possono afferrare «soltanto […] con la logica dialettica». Ritorna alla mente la considerazione di Guy Debord, secondo il quale lo Spettacolo[lxxxiii], «non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. È la vita concreta di tutti i giorni che si è degradata in universo speculativo»[lxxxiv]
Non diversamente si esprime anche Moishe Postone in “Time, Labor, and Social Domination”: «secondo l’analisi di Marx, i concetti hegeliani […] esprimono gli aspetti fondamentali della realtà capitalista […] Hegel ha compreso le forme sociali contraddittorie e astratte del capitalismo ma non nella loro specificità storica»[lxxxv].
La mainstream economics, invece, rifiuta la dialettica e cerca di elaborare modelli matematici che tentano di descrivere la realtà.
Tuttavia questi tentativi, piuttosto che alla fisica che cercano di scimmiottare, assomigliano molto di più alle imposture intellettuali di cui parlavano Sokal e Bricmont nella loro celebre invettiva contro la filosofia postmoderna: «alcuni testi […] ignorano totalmente l’aspetto empirico della scienza […] a leggerli, si ha l’impressione che un ragionamento diventi “scientifico” non appena risulti superficialmente coerente, pur non essendo mai stato sottoposto a verifiche strumentali. O, peggio ancora, che sia sufficiente appiccicare delle formule matematiche ai problemi per fare progressi»[lxxxvi].
Secondo Claus Peter Ortlieb, matematico rappresentante della Critica del valore: «la società non si lascia comprendere […] per mezzo dei soli metodi matematici». L’economia neoclassica, invece, ha cercato di costringere la realtà ad obbedire ad equazioni e grafici che non la descrivono, perdendo così ogni statuto scientifico[lxxxvii].
Resta da sottolineare, tuttavia, che la scienza ha almeno un esempio da offrire alla critica sociale, come a qualsiasi altra teoria: «per essere presa sul serio, ogni teoria deve ricevere supporto, almeno indirettamente, d(a) verifiche»[lxxxviii]. Si spera che il dibattito su questo confronto empirico possa nascere, in tempi brevi, anche in Italia.
Nel frattempo, per comprendere il feticismo della merce è lecito continuare ad esercitare quell’esemplare «forza di astrazione» di cui Marx rimane un esempio insuperato.
Radicalizzando l’immagine weberiana -recentemente evocata dall’antropologo Marco Aime-, dell’uomo come ragno che tesse ragnatele di significati in cui resta impigliato, si può dire che l’uomo capitalista abbia tessuto ragnatele fatte di pratiche allo stesso tempo reali e concettuali, le quali, con il succedersi delle generazioni sono divenute inconsce, falsamente naturali. Nella società mercantile tutto il passato culturale e tecnologico, resosi autonomo, si è rivoltato contro le nuove generazioni che continuano sempre a nascere.
La storia umana si è fatta feticcio minaccioso che rischia di travolgere tutti nel suo imminente crollo rovinoso.
Ma il capitalismo resta, alla fine, una ragnatela tessuta dall’uomo. Ciascuno ne tragga la sua conseguenza.
* K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, tr. it. di Delio Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1973. p.89
[1] «Nel 1980 gli attivi finanziari globali equivalevano all’incirca al Pil del mondo, nel 2007 essi lo superavano di 4,4 volte». Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Torino, Einaudi 2013, p.55
[ii] Luciano Gallino, la lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza, 2012, p.18
[iii] Carlo Formenti, Utopie letali, Milano, Editoriale Jaca Book, 2013, p.28 in nota.
[iv] K. Marx, Il Capitale. op.cit. p.73
[v] Norbert Trenkle, Terremoto del mercato mondiale, tr. it. Massimo Maggini, Milano, Mimesis 2014, p.31
[vi] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, in Il Capitale, Torino, Einaudi 1975, libro primo, vol.II, Appendici, p. 962
[vii] K. Marx, Il Capitale,cit. p.74
[viii] Norbert Trenkle si aggiunse dopo qualche numero della rivista.
[ix] Anselm Jappe, Il gruppo Krisis, la critica del lavoro e «il primato civile degli italiani», postfazione a Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, Roma, DeriveApprodi, 2003, p.128.
[x] Nel 2004, a seguito di un violento dissidio interno al gruppo Krisis, terminato con l’espulsione di uno dei membri più in vista, Robert Kurz (1943-2012) e di altri collaboratori, è nata anche un’altra rivista, tuttora edita in Germania: Exit!
[xi] Anselm Jappe, op. cit. p.125.
[xii] Anselm Jappe-Serge Latouche, Uscire dall’economia, Milano, Mimesis 2014, p.
[xiii] Ernst Lohoff, Fughe in avanti, qui, p.
[xiv] Ernst Lohoff, op. cit. p.
[xv] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, in Il Capitale, Torino, Einaudi 1975, libro primo, vol.II, Appendici, p. 962
[xvi] Aristotele, Etica Nicomachea, libro V, cap.8, tr. it. di Carlo Natali, Roma-Bari, Laterza, 1999. p.p. 193-195
[xvii] K. Marx, Il Capitale,cit. p.136
[xviii] K. Marx, Il Capitale,cit. p.110
[xix] K. Marx, Il Capitale,cit. p.136
[xx] Norbert Trenkle, Che cos’è il valore, qui, p.
[xxi] N.Trenkle, op. cit. p.
[xxii] N.Trenkle, op. cit. p.
[xxiii] K. Marx, Il Capitale,cit. p.118
[xxiv] K. Marx, Il Capitale,cit. p.122
[xxv] Vitalij S. Vygodskij, Introduzione ai “Grundrisse” di Marx, Firenze, La nuova Italia, 1974, p. 54
[xxvi] K. Marx, Il Capitale,cit. p.122
[xxvii] K. Marx, Il Capitale,cit. pp.127 e 132.
[xxviii] K. Marx, Il Capitale,cit. p.137
[xxix] K. Marx, Il Capitale,cit. p.133
[xxx] K. Marx, Il Capitale,cit. p.146
[xxxi] Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Grundrisse. Tr. It. di Giorgio Backhaus, Roma, Manifestolibri, 2012, p. 83.
[xxxii] V. S. Vygodskij, op. cit, p. 55
[xxxiii] V. S. Vygodskij, op. cit, p. 55
[xxxiv] K. Marx, Grundrisse, citato in V. S. Vygodskij, op. cit, p. 66.
[xxxv] K. Marx, Grundrisse, op. cit. p. 160
[xxxvi] K. Marx, Il Capitale,cit. p.265.
[xxxvii] V. S. Vygodskij, op. cit, p. 65
[xxxviii] Non è questa la sede per discutere approfonditamente le differenze tra prezzo e valore e le conseguenti polemiche che hanno accompagnato il marxismo fin dalla sua nascita.
[xxxix] K. Marx, Il Capitale,cit. p.305.
[xl] K. Marx, Il Capitale,cit. p.437.
[xli] Robert Kurz, L’apoteosi del denaro, tr. it. di Anselm Jappe, ora in La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma, Manifestolibri, 1997, p.70.
[xlii] R.Kurz, op. cit.
[xliii] R.Kurz, op. cit. p.72
[xliv] R.Kurz, op. cit. p.83
[xlv] R.Kurz, op. cit. p.84
[xlvi] R.Kurz, op. cit. p.86
[xlvii] R.Kurz, op. cit. p.91
[xlviii] R.Kurz, op. cit. p.93
[xlix] R.Kurz, op. cit. p.96
[l] R.Kurz, op. cit. p.102
[51] E.Lohoff, Fughe in avanti, op. cit, p.
[lii] R.Kurz, op. cit. p.115
[liii] Carlo Formenti, op. cit. p.111
[liv] R.Kurz, op. cit. p 116
[lv] R.Kurz, op. cit. p 131
[lvi] Norbert Trenkle, Terremoto del mercato mondiale, op. cit. p.43
[lvii] R.Kurz, op. cit. p.122
[lviii] R.Kurz, op. cit. p.118
[lix] Norbert Trenkle, E.Lohoff, Discarica di capitale, qui, p…
[lx] Norbert Trenkle, E.Lohoff, op.cit. qui, p…
[lxi] Norbert Trenkle, E.Lohoff, op.cit. qui, p…
[lxii] Norbert Trenkle, E.Lohoff, op.cit. qui, p…
[lxiii] Norbert Trenkle, E.Lohoff, op.cit. qui, p…
[lxiv] Norbert Trenkle, E.Lohoff, op.cit. qui, p…
[lxv] Sokal, Alan e Bricmont, Jean, Imposture intellettuali, tr. it. di Franco Acerbi e Monica Ugaglia, Milano, Garzanti, 1999, p.195
[lxvi] Marx, Karl, Grundrisse, da qualche parte.
[lxvii] Colletti, Lucio, Intervista politico-filosofica, Bari, Laterza, 1974, p.44
[lxviii] Colletti, Lucio,Il marxismo del XX secolo, in Crisi delle ideologie, Club degli editori, 1981, p.74
[lxix] Il marxismo del XX secolo, cit. p. 87
[lxx] Il marxismo del XX secolo, cit. p.
[lxxi] Colletti, Lucio, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1969.
[lxxii] Perché il marxismo ha fallito, cit. p.268
[lxxiii] Jappe, Anselm, Les aventures de la marchandise, Paris, éditions Denoël, 2003, p. 186. Traduzione mia.
[lxxiv] Si veda per questo Albert, David Z.Meccanica quantistica e senso comune, Milano, Adelphi, 2001. soprattutto laddove nota: «un elettrone che attraversa questo apparato […] non segue il percorso d, non segue il percorso t, non segue entrambi i percorsi e non è vero che non segue nessuno dei due. Il guaio è che queste quattro alternative esauriscono tutte le possibilità logiche che riusciamo sia pur vagamente a concepire!», p.29.
[lxxv] O.Tambosi, Perché il marxismo ha fallito, tr.it. di Alessandra Benabbi, Milano, Mondadori, 2001, p.209.
[lxxvi] Il marxismo del XX secolo, cit. p. 97-98
[lxxvii] Swift, Jonathan, I viaggi di Gulliver, tr. It di Attilio Brilli, Milano, Garzanti 2004, p.232.
[lxxviii]Les aventures de la marchandise, cit. p. 183
[lxxix] Les aventures de la marchandise, cit.p.183.
[lxxx] Les aventures de la marchandise, cit.p.187.
[lxxxi] Les aventures de la marchandise, cit.p.188.
[lxxxii] Les aventures de la marchandise, cit.p.189.
[lxxxiii] Un termine con il quale Debord indica il capitalismo sviluppato
[lxxxiv] Debord, Guy, La società dello spettacolo, tr.it. di Paolo Salvadori, Milano Baldini e Castoldi Dalai, 2004, p.58
[lxxxv] Postone, Moishe, Temps, travail et domination sociale, Éditions Mille et une nuits, 2009, p.126-127, traduzione mia.
[lxxxvi] Imposture intellettuali, cit. p.197
[lxxxvii] « L’économie n’est pas vraiment une science » (entretien avec Claus Peter Ortlieb), http://palim-psao.over-blog.fr/article-l-economie-n-est-pas-vraiment-une-science-entretien-avec-claus-peter-orlieb-106170827.html. Traduzione mia.
[lxxxviii] Imposture intellettuali, cit. p.197
Piccola bibliografia
Segue una lista dei (per ora pochi) testi della Critica del valore disponibili in lingua italiana, alla quale abbiamo aggiunto qualche importante libro tradotto in lingua francese, facilmente reperibile e fruibile dal lettore italiano.
Testi di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle:
Gruppo Krisis (R.Kurz, E.Lohoff, N.Trenkle), Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, Roma 2003.
Ernst Lohoff, La fine del proletariato come inizio della rivoluzione, in «Invarianti», n.29 e n.30, 1997.
Norbert Trenkle, E.Lohoff, Terremoto nel mercato mondiale, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.
Norbert Trenkle, E.Lohoff, Crisi, nella discarica del capitale, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015.
Altri autori:
Robert Kurz, L’onore perduto del lavoro, Manifestolibri, Roma 1994
R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Manifestolibri, Roma, 1997.
R.Kurz, Sein e Design, in «Agalma», n.1, 2000.
R.Kurz, Ragione sanguinaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.
R.Kurz, Il collasso della modernizzazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2017.
Anselm Jappe, Le sottigliezze metafisiche delle merci, in «Agalma», n.1, 2000.
A.Jappe, Da Céline al videoclip, in «Agalma», n.23, 2012.
- Jappe, Guy Debord, Manifestolibri, Roma 2013.
A.Jappe, Contro il denaro, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013.
A.Jappe, Serge Latouche, Uscire dall’economia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.
In lingua Francese si segnalano soprattutto:
Robert Kurz, Lire Marx, La Balustrade, 2013.
R.Kurz, Critique de la démocratie balistique, Mille et une nuits, 2004
R.Kurz, Avis aux naufragés, Éditions Lignes, 2005.
R.Kurz, Vies et mort du capitalisme, Éditions Lignes, 2011.
E.Lohoff, N.Trenkle, La grande dévalorisation, Post-éditions, 2014
A.Jappe, Les Aventures de la marchandise, Éditions Denoël, 2003.
A.Jappe, Les Habits neufs de l’empire : remarques sur Negri, Hardt et Rufin (avec Robert Kurz), Éditions Lignes, 2003.
A.Jappe, L’avant-garde inacceptable – réflexions sur Guy Debord, Éditions lignes-Léo Sheer, 2004.
A.Jappe, Crédit à mort: la décomposition du capitalisme et ses critiques, Éditions Lignes, 2011.
A.Jappe, Après l’économie de marché, une controverse (avec Bernard Friot), Atelier de création libertaire, 2014.
Moishe Postone, Marx est-il devenu muet?, Éditions de l’Aube, 2003.
M.Postone, Temps, travail et domination sociale, Mille et une Nuits, 2009.