Intervista di Selçuk Salih Caydı a Norbert Trenkle
apparsa in turco su Medyascope, 22.8.2022 (https://medyascope.tv/2022/08/21/norbert-trenkle-putin-rejimi-dunyadaki-hemen-hemen-tum-otoriter-yoneticiler-icin-bir-rol-modelidir/)
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Selçuk Salih Caydı: La guerra di aggressione della Russia è un tema molto sentito anche in Turchia. Molti, però, la vedono come una guerra difensiva della Russia contro il “malvagio Occidente”. Questa narrazione si ritrova sia nell’ultradestra che nella sinistra tradizionale. Come nasce questa unità d’intenti?
Norbert Trenkle: Quando Putin inveisce contro il “cattivo Occidente” e contro i cosiddetti valori occidentali, agisce come legittimo erede dell’antimperialismo tradizionale. È per questo che ottiene così tanto sostegno sia da destra che da sinistra e che molte persone del Sud globale si identificano con lui e con la sua politica di guerra. Un tempo l’antimperialismo era legato alle lotte contro il dominio coloniale e post-coloniale ed era indiscutibilmente giustificato in quel contesto, perché sono state le potenze occidentali a spartirsi il mondo e a dominarlo. E sono state le potenze occidentali, in primis gli Stati Uniti, anche dopo l’indipendenza statale delle ex colonie, ad aver fatto valere i loro interessi in modo spietato, non di rado anche con la guerra e il rovesciamento violento di governi scomodi. Pertanto, nel contesto della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica appariva come un alleato naturale dei movimenti di liberazione nazionale, anche se all’epoca perseguiva già i propri interessi imperiali. Tuttavia, questo ultimo aspetto è stato spesso trascurato, perché avveniva sotto gli auspici ideologici del “socialismo” e dell’emancipazione. Ma il cosiddetto socialismo reale non è mai stato un progetto emancipatorio, ma sempre e soltanto una certa forma di modernizzazione capitalista di recupero, in cui lo Stato svolgeva un ruolo centrale come “agenzia di sviluppo”. Anche molti Paesi del Sud del mondo hanno seguito un percorso simile dopo la Seconda guerra mondiale, cercando di rendersi più indipendenti dai centri capitalistici. Quando questi tentativi sono falliti quasi ovunque negli anni ‘70 e ‘80 e l’impero sovietico è crollato poco dopo, il nazionalismo e il fondamentalismo religioso sono venuti alla ribalta. Hanno riempito il vuoto ideologico lasciato dal “socialismo” e si sono uniti all’antimperialismo, che rappresentava un po’ il minimo comune denominatore di tutte le correnti politiche. È proprio su questo che la propaganda bellica russa può contare ancora oggi. Sebbene il regime di Putin sia estremamente autoritario e apertamente reazionario, è ancora visto come un alleato contro le “potenze occidentali”.
Che ruolo gioca il fatto che Putin descriva l’“Occidente” come decadente e culturalmente degenerato e si richiami invece ai valori tradizionali della “cultura russa” e della religione cristiana? Perché questa narrazione ha un fascino così forte?
Questa è la narrazione del “declino dell’Occidente”, che è vecchia quanto il capitalismo moderno. Oggi si colloca nel contesto di una culturalizzazione dei conflitti sociali e politici iniziata dopo il crollo del socialismo reale. Invece di una competizione sistemica – che è sempre stata solo una competizione tra due diverse varianti del capitalismo – si è parlato da allora di uno scontro di civiltà. Questa narrazione culturalista era emersa già nel XIX secolo in Europa, soprattutto in Germania, come reazione all’insicurezza generale che la dinamica capitalistica senza freni provocava (e provoca ancora). Tuttavia, invece di criticare questa dinamica in quanto tale e i suoi effetti negativi, ad esempio la distruzione delle risorse naturali o l’impoverimento di massa, è stata ridefinita come “decadenza culturale”. Rispetto a ciò, sono state costruite rappresentazioni di presunte culture o religioni antiche profondamente radicate in una società, che dovevano essere protette dalla minaccia della decadenza o fatte rivivere. Questa è la base ideologica di tutti i fondamentalismi nazionalisti, etnici e religiosi del mondo fino ad oggi. Ciò che i fondamentalisti ignorano, tuttavia, è che le loro idee “anti-occidentali” sono esse stesse solo un’importazione dall’Occidente. È involontariamente ironico quando, ad esempio, i nazionalisti indù in India o i mullah in Iran insistono sulla propria identità culturale e religiosa, ma in realtà copiano i modelli culturalisti di tradizioni inventate che hanno avuto origine in Europa. Anche Putin, che oggi invoca l’eredità del “Grande Impero Russo”, che vuole difendere dalla “decadenza occidentale”, si colloca nella tradizione di pensiero di un antimodernismo reazionario, che è emerso in primo luogo con il capitalismo e si è diffuso insieme ad esso in tutto il mondo. È quindi logico che il regime di Putin sostenga massicciamente partiti e movimenti di destra ed estrema destra, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti.
Ma perché Putin ha attaccato l’Ucraina? L’espansionismo russo non è forse anche una reazione allo spostamento dell’equilibrio di potere globale a favore dell’Occidente e in particolare all’espansione della NATO verso est?
Innanzitutto, vedo l’attacco all’Ucraina come parte di un’offensiva globale dell’autoritarismo e della destra politica e religiosa. Il regime di Putin è un modello per quasi tutti i governanti autoritari del mondo. In questo momento essi si vedono in ascesa perché il tentativo delle potenze occidentali di creare un nuovo ordine mondiale sotto l’egida dell’economia di mercato e della democrazia è fallito miseramente. In questo senso, non è vero che la guerra contro l’Ucraina sarebbe una reazione alle azioni offensive della NATO e degli Stati Uniti. L’allargamento della NATO verso est è terminato nel 2004. Da allora, non sono stati ammessi nuovi membri e l’ammissione dell’Ucraina e della Georgia è stata impedita non da ultimo da un veto del governo Merkel nel 2008. Quando, dunque, oggi il regime di Putin afferma di essersi dovuto difendere, per così dire, da un attacco della NATO, si tratta di pura propaganda. In realtà, è in gioco qualcosa di molto diverso. Per sua stessa ammissione, Putin considera il crollo dell’Unione Sovietica come la “più grande catastrofe del XX secolo”. Bisogna soffermarsi con attenzione su questo passaggio. Nel secolo più sanguinoso e violento di tutta la storia, almeno fino ad oggi, la fine relativamente pacifica dell’impero sovietico dovrebbe essere stata la cosa peggiore che sia accaduta… Questo getta una luce eloquente sul pensiero di Putin e dell’élite di potere che lo circonda, la maggior parte della quale proviene dall’apparato di intelligence e sicurezza, la quale interpreta la perdita della sua antica posizione di potenza mondiale come un affronto estremamente profondo ed è quindi spinta da un impulso irrefrenabile a ripristinarla, almeno in qualche misura. Questo è impossibile nella pratica, ma anche il solo tentativo provoca immense sofferenze, come nel caso attuale dell’Ucraina o anche precedentemente, in Siria.
Ma perché l’attacco all’Ucraina è avvenuto proprio ora? L’“affronto” di cui parli esisteva già da molto tempo.
Il fatto che l’attacco all’Ucraina abbia avuto luogo proprio adesso dipende, a mio avviso, da tre ragioni principali. In primo luogo, Putin vedeva l’Occidente in una posizione geopolitica indebolita; il ritiro, quasi in preda al panico, dall’Afghanistan dello scorso anno sembrava confermarlo. Ha ritenuto così che il momento fosse opportuno ed è rimasto sorpreso dalla reazione dura e decisa delle potenze occidentali. In secondo luogo, Putin vede minacciata la sua posizione di potere dal punto di vista economico, perché questa si basa sull’esportazione di materie prime, soprattutto petrolio e gas, ed è quindi messa radicalmente in discussione dall’imminente transizione dell’approvvigionamento energetico attraverso le energie rinnovabili. Se vuole raggiungere i suoi obiettivi imperiali, deve quindi agire finché esiste questa base economica. In terzo luogo, ci sono tensioni all’interno della Russia, dovute non da ultimo all’enorme divisione sociale. In queste circostanze, una guerra di conquista, anche se non si può chiamare così, è sempre un buon modo per radunare di nuovo la popolazione dietro di sé, poiché scatena un’ondata nazionalista ed è una dimostrazione di forza. Nel 2014 ha già funzionato bene con l’annessione della Crimea. Perché non dovrebbe funzionare di nuovo? È ormai chiaro che Putin ha sbagliato i calcoli militari e politici, ma al tempo stesso ha messo in moto una dinamica che non può essere fermata tanto facilmente.
Dunque Putin sembra certamente temere di perdere il potere. Ma non deve forse temere anche la sconfitta militare?
Una sconfitta militare sarebbe ovviamente un disastro per Putin, poiché non riuscirebbe a sopravvivere politicamente. Ecco perché ora sta mobilitando tutti i mezzi disponibili per impedirlo e si sta concentrando sull’obiettivo di annettere tutta l’Ucraina orientale e creare un corridoio terrestre verso la Crimea. Questo obiettivo è abbastanza realistico, considerando le dimensioni della macchina militare russa. Tuttavia, significa anche che la guerra si trascinerà e le sofferenze per la popolazione si aggraveranno. Ma la paura di perdere il potere è stata, come ho detto, una motivazione importante per iniziare questa guerra. Il regime di Putin, come ogni regime autoritario, teme costantemente che la propria popolazione possa ribellarsi. Negli ultimi anni ha senz’altro fatto di tutto per reprimere, intimidire o cacciare l’opposizione dal Paese, ma più un regime si chiude ermeticamente, più la paranoia diventa forte. Questa è una caratteristica generale di tutti i regimi autoritari: sentono odore di cospirazione ovunque e attuano sempre nuove ondate di “pulizia”, spesso sacrificando gli ex alleati.
Nel caso della Russia, c’è anche il timore di un “contagio” dai movimenti di protesta negli Stati vicini. Ecco perché Putin si è precipitato in aiuto del dittatore bielorusso Lukashenko quando era in difficoltà due anni fa e perché è intervenuto così rapidamente in Kazakhstan quando la popolazione è scesa in piazza all’inizio di quest’anno. Tuttavia, vede nella società civile ucraina, relativamente vivace, una particolare minaccia, perché nega a questo Paese l’indipendenza e lo considera parte della “Grande Russia”. Ecco perché vuole creare “ordine” nel senso che intende lui, cioè sradicare tutto ciò che è resistente. Il fatto che nelle grandi città ucraine vi siano comunità queer piuttosto vive, ad esempio, è uno scandalo per Putin, perché mette in discussione la gerarchia binaria dei sessi, che egli considera naturale o data da Dio. In questo è d’accordo con tutte le forze autoritarie e reazionarie del mondo, siano esse islamiste, fondamentaliste cristiane o fasciste. Sentono che il nucleo della loro identità di genere è minacciato dai movimenti femministi e queer e rispondono con un misto di panico e violenza.
Parli di un’ “offensiva globale” dell’autoritarismo. La democrazia ha forse perso il suo appeal?
Tutti i principali movimenti di protesta nel mondo si richiamano ancora ai valori della democrazia e della libertà. Ora, la democrazia liberale non ha mai significato che la società sia veramente libera di disporre di se stessa, perché ha sempre presupposto vincoli capitalistici; nonostante ciò, è comunque preferibile all’autoritarismo. Tuttavia, non può funzionare senza un minimo di uguaglianza sociale. Ma poiché il capitalismo moderno, a causa dell’alta produttività, richiede sempre meno forza lavoro nella produzione e allo stesso tempo l’accumulo di capitale avviene principalmente nei mercati finanziari, sempre più persone vengono rese “superflue” e socialmente emarginate. Queste non hanno quasi nessuna possibilità di far valere i propri interessi e non sono più rappresentate politicamente. Ecco perché le istanze autoritarie sono in aumento ovunque. Promettono a queste persone un minimo di sicurezza sociale e costruiscono identità collettive dividendo il mondo in amici e nemici. In questo modo, possono proporsi come “rappresentanti del popolo”, cioè della grande maggioranza, e così legittimare democraticamente le loro pretese di potere. La maggior parte degli autocrati di oggi si presenta come difensore della democrazia, anche se calpesta costantemente le libertà civili e lo Stato di diritto e si arricchisce spudoratamente nel privato. Il grande dramma è che le forze della società civile che si oppongono all’autoritarismo hanno poco da opporre a questa strategia politica. Infatti, sebbene si battano per le libertà civili, in genere non hanno risposte alle questioni sociali più scottanti. È quindi facile diffamarli come rappresentanti di una piccola élite separata che non si preoccupa della cosiddetta gente normale. Soggettivamente, questo senz’altro non è vero in molti casi, ma oggettivamente la democrazia liberale è oggi più che mai un fatto minoritario a livello globale, perché nella maggior parte dei Paesi non è più in grado di creare nemmeno un rudimentale equilibrio sociale. Questo perché l’estrema polarizzazione sociale, derivante dalle dinamiche oggettivate del capitalismo globale in crisi, non può essere contrastata con gli strumenti della politica liberale.
La formazione autoritaria o bonapartista dello Stato russo sotto Putin è quindi un risultato inevitabile dell’acuirsi della crisi capitalistica? Uno Stato di questo tipo è in grado di gestire la crisi?
Questo sviluppo non era inevitabile. Ci sono altri Stati che hanno preso una strada diversa. Dipende anche dagli equilibri di potere. In Russia esisteva un forte apparato della sicurezza che ha reagito alle privatizzazioni selvagge e alla crisi degli anni Novanta. Grazie ad esso, Putin è riuscito a mettere gli oligarchi al loro posto e a porli al servizio dello Stato. Certo, non ha ostacolato i loro business; a coloro che non si sono opposti al regime è stato permesso di continuare ad accumulare profitti oscenamente elevati. Ma ha raggiunto una certa stabilizzazione dell’economia e delle infrastrutture, così che i salari e le pensioni sono tornati a essere pagati puntualmente e la grande maggioranza della popolazione russa ha potuto sopravvivere in qualche modo. Questo dà ancora oggi al regime di Putin un ampio sostegno popolare; anche se non tutti lo adorano, molti sono per lo meno dell’avviso che non ci sia un’alternativa migliore. Si può certamente dire che, in questo senso, il regime di Putin ha trovato una soluzione temporanea alla crisi in Russia. Ma tutto questo deve essere compreso nel contesto del boom capitalistico, soprattutto negli anni 2000, che è stato decisamente guidato dalla finanziarizzazione e dal boom edilizio che essa ha alimentato. All’epoca si diceva addirittura che la Russia, insieme a Cina, Brasile e India – i cosiddetti Paesi BRIC – si stesse avviando a diventare una potenza economica mondiale. Di fatto, però, il relativo successo economico si è basato essenzialmente sul fatto che la Russia si era trasformata nel fornitore mondiale di materie prime ed energia. Ma questo è anche il tallone d’Achille del regime. Se la domanda crolla, anche l’economia russa vacillerà. Al momento Putin può ancora usare la dipendenza dell’Europa, e in particolare della Germania, come arma, ma tra qualche anno potrebbe essere finita. Infatti, anche se la ristrutturazione della base energetica certamente non progredirà con la rapidità promessa dai governi occidentali, essi cercheranno altre fonti di approvvigionamento, spesso in Paesi governati in modo non meno autoritario della Russia. Soprattutto, però, la guerra potrebbe scatenare un’enorme crisi economica globale, a seguito della quale anche la domanda generale di energia diminuirebbe.
Ma cosa succede se la base economica dell’autoritarismo russo viene meno? Può esistere uno Stato post-capitalista e autoritario che tiene insieme la società con la forza?
È difficile prevedere con esattezza come si svilupperà la situazione in Russia in questo caso. Ma se l’esportazione di materie prime come base economica scompare o diventa precaria, non per questo il capitalismo in Russia crollerà, ma entrerà in una nuova fase di crisi. È possibile che i conflitti tra le varie fazioni mafiose, che si raggruppano intorno ai cosiddetti oligarchi, aumentino ancora e si scontrino aspramente per cioò che resta della ricchezza sociale. Al momento in Russia lo Stato tiene ancora sotto controllo queste fazioni mafiose, anche se naturalmente persino il personale statale si arricchisce dove e come può. Forse lo Stato è abbastanza forte da continuare a garantire questo controllo anche in condizioni di crisi economica. Ma diventerà comunque molto più difficile, se il bottino, da dividere fra bande e Stato, diventa sempre più esiguo. Potrebbe pertanto accadere che, come già negli anni ’90, lo Stato si trovi ancora una volta in mezzo a queste lotte di interessi.
Questa è, in ogni caso, la tendenza presente in tutto il mondo, là ove la base economica si sta erodendo. Quando l’economia diventa sempre più instabile, lo Stato rimane l’unica autorità in grado di garantire una certa stabilità. E lo fa intervenendo apertamente e violentemente nei conflitti di interesse e reprimendo le proteste. D’altra parte, lo Stato non è un’autorità fuori dalla società, che si porrebbe al di sopra di tutti questi conflitti di interesse, ma è esso stesso significativamente influenzato, nelle sue azioni, dagli equilibri sociali del potere. Per questo motivo, l’apparato statale va sempre incontro a corrosioni interne. Esso stesso diventa così preda di una o più bande, che devono però in qualche modo organizzarsi tra loro. Il modo in cui lo fanno varia da Paese a Paese. Di norma, ogni banda deve servire un certo tipo di clientela per ottenere una certa base sociale. Un buon esempio è il Libano, dove lo Stato è diviso tra vari gruppi sociali, ognuno dei quali si rivolge solo ai propri sostenitori, saccheggiando allo stesso tempo le casse dello Stato. Naturalmente, tutto questo non ha nulla a che fare con il post-capitalismo. Le forme capitalistiche sono ancora tutte presenti e lo scopo dell’azione rimane quello di aumentare il denaro, anche se ora principalmente con mezzi criminali. Si deve piuttosto parlare di crisi in forma di decadenza del capitalismo.
Si può ancora fermare questo processo? Cosa possiamo fare per contrastare l’autoritarismo e la “mafiosizzazione” dello Stato se la democrazia liberale, come hai detto sopra, non rappresenta più una prospettiva? Ci sono ancora alternative?
Rispetto all’autoritarismo, come ho accennato, la democrazia liberale è certamente ancora l’alternativa migliore. Ma essa non ha più una base materiale in una parte sempre più ampia del mondo. La democrazia liberale, infatti, può funzionare solo quando gran parte dei membri della società sono necessari in quanto venditori della propria forza lavoro per lo valorizzazione del capitale ed essi si vedono rappresentati politicamente. In sostanza, questa è la forma politica di una fase storica molto specifica del capitalismo, quando ancora si basava sul lavoro di massa nella produzione. Ma questa fase è irrimediabilmente finita e quindi le basi della democrazia liberale si stanno erodendo, anche in quei Paesi in cui è ancora in qualche misura funzionante.
Il capitalismo di oggi, come ho detto sopra, ha sempre meno bisogno di forza lavoro umana, e per conseguenza rende superflue un numero sempre maggiore di persone per il suo scopo, che è quello di moltiplicare il denaro. Allo stesso tempo, però, occupa sempre più risorse e parti sempre più ampie della superficie terrestre per continuare a funzionare. Attualmente stiamo vivendo una nuova spinta alla colonizzazione del pianeta sotto l’egida di una “trasformazione ecologica”, che però non è affatto una trasformazione ecologica, ma serve solo a garantire per qualche altro anno il modello di produzione ed il consumo di una minoranza globale. Naturalmente, sono soprattutto le popolazioni del Sud del mondo a soffrire di questo sviluppo. Ma è comunque un problema generale. Divisione sociale, distruzione ecologica e tendenze autoritarie vanno di pari passo ovunque. Pertanto, è necessaria una risposta globale che guardi oltre il capitalismo. Il problema principale è che i concetti tradizionali di emancipazione sono tutti superati, soprattutto quelli che vedono ancora lo Stato come “salvatore” nei momenti di bisogno. Essi portano verso il vicolo cieco di un autoritarismo che in qualche modo si considera di sinistra, che non è molto meglio del suo fratello di destra. Abbiamo invece bisogno di una nuova prospettiva di emancipazione al di là del mercato e dello Stato.
E come potrebbe darsi questa prospettiva?
Condivido molto l’idea del Commonismus. La base di una società di questo tipo non è la proprietà privata, ma i beni comuni (i Commons), che non appartengono a nessuno ma sono utilizzati da tutti in modo cooperativo. A questo si accompagna ovviamente una forma di relazione sociale completamente diversa. Al centro della forma di relazione capitalista c’è la proprietà privata, che si basa sulla demarcazione e sull’esclusione. Ciò che mi appartiene è esclusivamente mio e posso farne ciò che voglio. Questo implica anche che sono socialmente riconosciuto solo se ho una proprietà privata, anche si trattasse solo della mia forza lavoro. Ma questo mi porta qualche beneficio solo se è spendibile. In altre parole, la proprietà privata è la base di una società in cui la coesione sociale si stabilisce attraverso la circolazione dei beni. C’è una concorrenza generalizzata, poiché ogni persona persegue il proprio interesse privato contro quello degli altri. La situazione è molto diversa in una società basata sui beni comuni (Commons). Qui la forma fondamentale di relazione sociale è la cooperazione. Qui la ricchezza sociale è sempre prodotta e condivisa con gli altri – ma qui la ricchezza sociale deve essere compresa in modo molto più ampio rispetto alla società capitalista, dove solo ciò che può essere rappresentato in denaro conta come ricchezza.
Non è un’idea un po’ troppo utopica?
Non lo credo. In tutti i movimenti sociali troviamo le forme più diverse di commoning, cioè di produzione di beni comuni (Commons). Queste forme però sono spesso solo state interpretate, e lo sono ancora, come un espediente, o comunque come una forma temporanea di relazione che scompare quando un movimento è riuscito a far valere i propri interessi e viene riconosciuto nelle categorie del mercato e dello Stato. Questo è stato il caso, ad esempio, del movimento operaio classico. Ma quando questo riconoscimento diventa sempre più difficile da ottenere, il commoning assume un significato completamente diverso e centrale. Diventa il fondamento della vita e della sopravvivenza comune. Lo vediamo in molti movimenti sociali in tutto il mondo. Il problema principale è che, di solito, questi movimenti non hanno abbastanza risorse e spazio sociale per porre il commoning su basi solide e sostenibili. Questo perché le risorse, soprattutto la terra, sono in gran parte occupate capitalisticamente, cioè trasformate in proprietà privata. E questo stato di fatto viene difeso strenuamente, anche se l’uso privatistico del mondo ne determina in misura sempre maggiore la distruzione. Per questo motivo, le lotte per le risorse da mettere in comune rappresentano oggi potenzialmente la linea principale di conflitto sociale, là dove si può fermare la devastazione ecologica e allo stesso tempo muovere i primi passi una nuova società liberata. Ad oggi, tuttavia, queste lotte sono ancora minoritarie in termini globali, o si svolgono in nicchie sociali. Pertanto, è importante collegarle con altre tipi di lotte, non da ultimo con la lotta contro l’autoritarismo e contro tutte le forme di esclusione sociale. Allora l’idea di Commonismus, per parafrasare Marx, potrebbe diventare “potenza materiale”.
Istanbul/ Nürnberg 30.6.2022